La chimera, creatura mitologica generata dall’improbabile unione di leone, capra e serpente, personifica qualcosa di innaturale, sgraziato nella sua disomogeneità e lontano dalla realtà.
È proprio usando questa metafora che i firmatari di uno studio pubblicato oggi su Science Advances hanno definito una classe di meteoriti terrestri che desta sospetto e sconcerto sin dai suoi primi ritrovamenti negli anni Sessanta. Si tratta delle cosiddette meteoriti ferrose IIE, i cui frammenti sono sparsi in tutto il mondo e sembrano provenire da un unico corpo primordiale: un planetesimo dalle caratteristiche ibride ed inusuali, per l’appunto.
Secondo le teorie più accreditate, le meteoriti si classificano secondo uno schema bimodale, che presuppone che nessun singolo corpo planetario possa essere fonte contemporanea di meteoriti non fuse – le cosiddette condriti, che costituiscono la maggior parte dei ritrovamenti sulla Terra e sono formate da materiale roccioso indifferenziato – e di meteoriti fuse – le cosiddette acondriti, i cui materiali costituenti sono differenziati poiché sottoposti a fusione, differenziazione e ricristallizazione. Questa dicotomia è un risultato naturale dei modelli di formazione secondo cui l’accrescimento planetario si è verificato in tempi pressoché istantanei, e la cui naturale conseguenza è che le due classi di meteoriti provengano da corpi che si sono formati ed evoluti in modo spazialmente e temporalmente distinto.
Inoltre, poiché le strutture interne dei planetesimi dipendono dal riscaldamento prodotto dal decadimento di un isotopo dell’alluminio – l’alluminio-26, la cui emivita, ovvero il tempo di dimezzamento in termini di abbondanza è 0.7 milioni di anni circa –, i corpi condritici devono essersi formati più tardi delle loro controparti acondritiche, evitando la fusione.
In questo scenario, i frammenti di IIE sembrano però raccontare una storia diversa. Secondo lo studio, il progenitore di questa classe di meteoriti doveva essere un oggetto differenziato in strati diversi e con un nucleo metallico fuso. Il nucleo di questo corpo inspiegabilmente complesso, inoltre, doveva essere abbastanza consistente da generare un campo magnetico di intensità pari a quello terrestre attuale.
«Questo è un esempio di planetesimo che deve aver avuto strati fusi e non fusi. Le evidenze incoraggiano la ricerca di ulteriori prove dell’esistenza di strutture planetarie primordiali composite», dice la prima autrice dell’articolo, Clara Maurel, studentessa del Dipartimento di scienze terrestri, atmosferiche e planetarie (Eaps) del Mit. «Comprendere l’intero spettro di strutture primordiali, da quelle non fuse a quelle completamente fuse, è la chiave per decifrare come si sono formati i planetesimi nel Sistema solare».
Alcuni studi recenti, dai quali Maurel e colleghi sono partiti, affermano che l’accrescimento di molti planetesimi sia durato oltre un milione di anni, dando il tempo di generare corpi aventi strutture interne parzialmente differenziate: nuclei di ferro, mantelli di silicati acondritici e croste condritiche. È questo lo scenario proposto per la formazione della bizzarra categoria di meteoriti ferrose IIE, scenario che può essere testato cercando un gruppo di meteoriti contenenti evidenza di tutti e tre gli strati.
«Questi corpi», riprende Maurel, «si sono fusi al punto da far affondare il materiale pesante verso il centro e formare un nucleo metallico come quello della Terra? Questo era il pezzo mancante nella storia di queste meteoriti.»
Il team ha ipotizzato che, se il planetesimo d’origine delle IIE avesse ospitato un nucleo metallico, esso avrebbe potuto generare un campo magnetico – con processi analoghi alla Terra. Un campo magnetico antico e intenso avrebbe potuto orientare i minerali presenti al suo interno nella direzione del campo, come l’ago di una bussola.
L’analisi per la ricerca di queste impronte magnetiche è stata condotta sui campioni di due meteoriti ferrose di tipo IIE, Colomera e Techado, contenenti rispettivamente inclusioni di silicati acondritici e condritici. L’esperimento consisteva nell’irraggiare i campioni con l’Advanced Light Source del Lawrence Berkeley National Laboratory, facendo interagire i grani dei minerali con i raggi X su scale dei nanometri, e ha rivelato in diversi grani meteoritici un allineamento degli elettroni verso una direzione comune. È questa la prova che il corpo di provenienza delle IIE avesse un campo magnetico di intensità dell’ordine di diverse decine di microtesla – paragonabile dunque al campo magnetico terrestre –plausibilmente prodotto proprio da un nucleo metallico liquido spesso – considerando l’intensità – diverse decine di chilometri.
Secondo gli scienziati, corpi simili a questi planetesimi complessi avrebbero probabilmente impiegato diversi milioni di anni per formarsi, un periodo decisamente più lungo di quello ipotizzato negli scenari di formazione classici.
Ma da quale regione del planetesimo d’origine provengono le meteoriti ritrovate sulla Terra? Considerando che il campo magnetico si genera nel nucleo del planetesimo, gli autori escludono che i frammenti facessero parte del nucleo stesso. La ragione è che un nucleo liquido genera un campo magnetico solo quando è ancora bollente, imprimendo la propria orientazione nei minerali al di fuori di esso.
Le simulazioni messe in piedi dagli scienziati – in collaborazione con il dipartimento di geofisica dell’università di Chicago – per riprodurre tutti i possibili scenari di formazione delle meteoriti hanno aperto la strada alla possibilità di uno scontro fra un planetesimo con un nucleo liquido con un altro corpo, il cui impatto avrebbe potuto causare un distacco di materiale dal nucleo. Tale materiale sarebbe poi migrato in zone vicine alla superficie e da esso si sarebbero originate in seguito le meteoriti.
Questa spiegazione sembra – agli occhi degli scienziati – decisamente convincente. Come quasi tutti i meteoriti asteroidei, inoltre, si pensa che anche le meteoriti ferrose IIE abbiano avuto origine da un corpo attualmente situato nella fascia degli asteroidi. Rimane però aperta una questione critica circa il luogo in cui è avvenuto lo scontro: nella fascia degli asteroidi o piuttosto nella regione di formazione della Terra (fra 1 e 2 unità astronomiche)? E poi, le meteoriti originate nello scontro come sono entrate in rotta di collisione con l’orbita della Terra, finendoci sopra?
Resta infine anche da capire se un planetesimo così complesso fosse una rarità nel Sistema solare primordiale, o se faccia parte di una famiglia numerosa di corpi ancora tutti da scoprire. La risposta potrebbe trovarsi proprio nella fascia degli asteroidi, una regione popolata da resti primordiali.
«La maggior parte dei corpi nella fascia degli asteroidi appaiono indifferenziati sulla loro superficie», osserva uno dei coautori del Mit, Benjamin Weiss. «Se riuscissimo a vedere all’interno degli asteroidi, potremmo avere la risposta che cerchiamo. Forse alcuni asteroidi sono fusi e differenziati al loro interno, e corpi come questo planetesimo sono in realtà comuni».
Puntuale – almeno nella carta – e diretta verso un adeguatissimo obiettivo è la missione della Nasa Psyche, che visiterà l’asteroide M16 Psyche nel 2026, e aiuterà a comprendere il legame tra gli asteroidi ricchi di ferro metalli e il nucleo di antichi planetesimi complessi come quelli che verosimilmente hanno generato le meteoriti IIE.
Per saperne di più:
- Leggi su Science Advances l’articolo “Meteorite evidence for partial differentiation and protracted accretion of planetesimals”, di Clara Maurel,, James F. J. Bryson, Richard J. Lyons, Matthew R. Ball, Rajesh V. Chopdekar, Andreas Scholl, Fred J. Ciesla, William F. Bottke e Benjamin P. Weiss