Alla fine anche la terza missione spaziale diretta verso Marte, quella degli Stati Uniti, si è alzata in volo. Dopo Al Amal (Hope) degli Emirati Arabi, lanciata il 19 luglio, e la cinese Tianwen-1, partita quattro giorni dopo, il 23 luglio, oggi alle 13:50 è stato il turno del rover Perseverance della Nasa. Tre in meno di due settimane, un record dal sapore agrodolce: vedere il razzo Atlas V alzarsi in volo sulla Florida, per noi europei, è un po’ come assistere alla partenza dell’ultimo pullman con a bordo i compagni di classe in gita scolastica: ciao, divertitevi, ma come, tu non vieni? Purtroppo no, ho qualche linea di febbre…
Il grande assente, in quest’estate marziana senza precedenti, è la missione ExoMars dell’Agenzia spaziale europea (Esa) e della russa Roscosmos, con il suo rover Rosalind – così chiamato in onore della scienziata Rosalind Franklin, della quale proprio il 25 luglio scorso si sono celebrati i cent’anni dalla nascita. A rovinare la ricorrenza perfetta, a far saltare il poker spaziale, a trattenere Rosalind qui sul pianeta Terra per altri due anni non è stata, però, qualche linea di febbre. Che cosa, allora? E come sta, il compagno di classe rimasto sul piazzale della scuola a seguire, una dopo l’altra, le live dei lanci che si sono susseguite in rete negli ultimi giorni, fino a quella di pochi minuti fa di Mars 2020?
Media Inaf lo ha chiesto a una scienziata del team di ExoMars, Maria Cristina De Sanctis dell’Inaf Iaps di Roma, principal investigator di Ma_Miss (uno degli strumenti del rover Rosalind).
Perché l’Europa alla fine ha gettato la spugna? L’Esa ha sottolineato il ruolo dell’emergenza Covid. Un’eventualità senza dubbio gravissima e imprevedibile, ma che ha riguardato l’intero mondo – Cina, Medio Oriente e America comprese, no?
«Non sono del tutto d’accordo. Occorre tenere presente anche quando si è verificata, l’emergenza Covid, nei vari paesi. E come hanno reagito. Perché non tutti hanno disposto chiusure radicali. Da noi, in Italia, sostanzialmente si è chiuso tutto, e lo stesso si può dire per molti altri paesi europei. Negli Stati Uniti, invece, non è stato così, perlomeno non ovunque. E nemmeno in Cina. Dunque sì, è vero, l’emergenza Covid ha riguardato tutti, ma su ExoMars forse ha picchiato un po’ più duro che su altre missioni. Anche per un altro motivo».
Quale?
«È una missione che coinvolge, per tante ragioni, molte industrie di molti paesi. Di conseguenza, i vari sottosistemi della missione si sono trovati a dover essere più volte trasportati da una parte e dall’altra dell’Europa. Un pezzo viene fatto qua, un altro là, poi ci sono i test che vanno condotti altrove… Nessun problema in condizioni normali, ma subentrando le limitazioni dovute alla pandemia ecco che anche un semplice trasporto è diventato un incubo. Insomma, capisco che alcuni pensino che l’emergenza Covid sia stata anche una mezza scusa, ma quel che è certo è che ha contributo moltissimo a complicare le operazioni».
Insieme all’altro grosso problema, quello dei paracadute…
«Ecco, anche questo è un esempio di quel che dicevo prima. I test che avremmo dovuto compiere sui paracadute a inizio primavera, negli Stati Uniti, non sono stati completati anche a causa dell’emergenza Covid. Una volta posticipata la missione, poi, ovviamente sono stati rimandati anche questi ultimi test, non avendo più l’urgenza di prima. Ma certo la pandemia ha giocato un ruolo rilevante in ogni decisione».
E quanto pesa, secondo lei, l’aspetto psicologico – se di psicologia si può parlare per una missione spaziale? Voglio dire: fra voi che l’ambiente dell’Esa lo conoscete bene, che ne fate parte, quanto lo schianto del lander Schiaparelli di ExoMars 2016 è vissuto come esperienza dalla quale trarre semplicemente tutti gli insegnamenti possibili e quanto, invece, come evento traumatico che paralizza?
«Mah… è un aspetto molto più sentito fra chi osserva la missione dall’esterno, secondo me, che fra chi ci lavora. So che può sembrare strano, ma non è certo quella dell’atterraggio la nostra preoccupazione maggiore».
No? Quali altri timori avete?
«Intendo dire, ExoMars è obiettivamente una missione assai complicata. A mio giudizio, la missione della Nasa Perseverance, per esempio, è forse meno complessa di ExoMars».
Perché?
«Anzitutto ha meno strumenti. Poi va tenuto presente che ExoMars prevede una piattaforma dalla quale viene fuori il rover, mentre Perseverance arriva ed è già pronto. Far uscire un rover dalla piattaforma è davvero molto complicato. Non dimentichiamo, poi, che ExoMars ha un drill capace di perforare fino a due metri: una cosa che su Perseverance non è prevista, ma al tempo stesso una scelta complicatissima. Insomma, ExoMars è davvero una missione estremamente complessa, mentre su Perseverance gli strumenti veri e propri sono meno. Alcuni – come il piccolo elicottero – sono semplici dimostratori. Come del resto avrebbe dovuto essere considerato quello che poi è diventato Schiaparelli».
Prima che cos’era?
«Prima era semplicemente una sigla, Edm: Entry, Descent and Landing Demonstrator Module. E come tale avrebbe dovuto essere presentato: un dimostratore tecnologico. Avrebbe aiutato soprattutto all’esterno a comprenderne meglio lo scopo. Tant’è vero che trasportava praticamente solo sensori».
Tornando a ExoMars 2022: come sta andando? E Ma_Miss, in particolare, lo strumento del quale lei è responsabile: è tutto pronto, parcheggiato e tenuto in caldo in attesa del 2022?
«Per quanto riguarda Ma_Miss, è stato il primo a essere consegnato, essendo uno strumento integrato nel drill. È stata una fatica immane, anche perché a sua volta il drill doveva essere integrato nel rover, dunque sì, siamo stati proprio i primi a consegnare lo strumento. Ma non direi che è tenuto “in caldo”, se lo fosse sarei un po’ preoccupata: è uno strumento che va tenuto a determinate condizioni di temperatura e pulizia dell’ambiente, e dai test funzionali che ogni tanto facciamo sul rover direi che sta proprio bene. Quando lo accendiamo risponde come ci attendiamo, invia dati diagnostici corretti».
Dunque Ma_Miss sarebbe stato pronto per partire anche oggi?
«Sì, è così, siamo solo in attesa del lancio. Certo, dovendo aspettare altri due anni ci sono alcune operazioni di routine che vanno messe in atto – tipicamente quelle cosiddette di “storaggio” degli strumenti. E per alcuni sottosistemi del rover si approfitterà dell’attesa forzata per migliorare un poco alcune cose. Ma nel complesso tutti gli strumenti scientifici sono pronti. I ritardi riguardavano la piattaforma, il modulo di atterraggio, appunto… insomma, la parte che potremmo chiamare più ingegneristica, non quella scientifica. D’altronde Marte è particolarmente complicato, bisogna riconoscerlo».
Se non fosse già dentro ExoMars, come scienziata, in quale delle tre missioni ora in viaggio verso il Pianeta rosso vorrebbe essere direttamente coinvolta? E su quale strumento, in particolare?
«Premesso che sono tutti ottimi strumenti, mi piace molto il tracciatore di composti organici basato sulla luminescenza ultravioletta di Mars 2020, visti i miei interessi per l’analisi della composizione delle sostanze. Ma anche il georadar: che io sappia, sarà il primo radar sounder – avendo rimandato il lancio di ExoMars, che ne monta uno anch’esso – a essere impiegato su Marte. Sarà anche il primo strumento a darci informazioni sulla sottosuperficie non più dagli orbiter ma direttamente dal pianeta – e non per un punto soltanto come avrebbe dovuto fare la “talpa” di InSight, se non avesse fatto la fine che ha fatto. Informazioni obiettivamente nuove, dunque. Peccato solo che non sia un radar italiano, come invece quelli presenti sugli orbiter».
E il georadar che sarà su ExoMars 2022, invece, chi lo ha sviluppato?
«La principal investigator è Valérie Ciarletti, una ricercatrice francese, ma nella collaborazione c’è anche l’Inaf: c’è una forte sinergia, con Valérie lavoriamo molto bene».
Infine: immagino che, per una scienziata europea coinvolta in prima persona sia nello studio di Marte sia nell’unica delle quattro missioni che non è riuscita a partire, le emozioni di queste ore siano ambivalenti…
«Personalmente un po’ ci penso, certo. Ma non troppo. C’è tanta attività da fare, non tanto per il nostro strumento – che come dicevo è pronto e consegnato – ma legata alla preparazione della missione. Per esempio, ogni settimana ci riuniamo per l’analisi del landing site, per mappare in modo dettagliato la regione di atterraggio e capire cosa ci troveremo ad affrontare. Poi ci sono le review sullo stato del rover… Lavoriamo così assiduamente che alla fine quasi non ci accorgiamo del fatto che anche il nostro ExoMars sarebbe dovuto essere già in volo. D’altronde, all’inizio doveva essere lanciato nel 2018, poi nel 2020, ora nel 2022… insomma, meglio non pensarci troppo».