Secondo i risultati di una nuova ricerca condotta da un team internazionale di scienziati provenienti da Cina, Australia e Università della British Columbia (Ubc) – pubblicata ieri su Nature – il cielo notturno più bello del mondo si trova in Antartide.
Una delle sfide più impegnative dell’astronomia da Terra è l’effetto della turbolenza atmosferica sull’immagine del telescopio. La qualità di un sito per osservazioni astronomiche alle lunghezza d’onda ottiche e infrarosse è definita dal seeing, un numerino che descrive quanto l’atmosfera terrestre perturba l’immagine dei corpi celesti osservati e che rappresenta la dimensione angolare delle immagini stellari offuscate dalla turbolenza stessa. Minore è la turbolenza (più basso è il seeing), minore è l’effetto sull’immagine.
Gli osservatori con le migliori prestazioni in termini di seeing si trovano ad alta quota, lungo l’equatore (Cile e Hawai) e sono caratterizzati da un seeing nell’intervallo da 0.6 a 0.8 secondi d’arco. In Antartide – in un luogo chiamato Dome C, dove è presente la stazione internazionale Concordia – i valori di seeing stimati a un’altezza di 30 metri, al di sopra del sottile strato di turbolenza, vanno da 0.23 a 0.36 secondi d’arco. Nello studio, i ricercatori hanno valutato una località diversa, Dome A, che si trova vicino al centro dell’Antartide orientale, 1200 chilometri nell’entroterra. Le misurazioni da Dome A, effettuate a un’altezza di 8 metri, si sono rivelate migliori di quelle prese alla stessa altezza da Dome C e paragonabili a quelle da un’altezza di 20 metri da Dome C. Gli autori riportano un seeing notturno medio di 0.31 secondi d’arco, arrivando in alcuni casi fino a 0.13 secondi d’arco.
Quindi, tutti in Antartide a fare osservazioni astronomiche? Non è così semplice… stiamo parlando di uno dei luoghi più freddi e remoti della Terra. E sono pochissimi quelli che hanno avuto la possibilità e le capacità (fisiche e mentali) per risiedervi per un lungo periodo. Uno di questi è Marco Buttu, dell’Inaf di Cagliari, che ha trascorso un intero anno a lavorare a Dome C, e ha accettato di parlarne, in questa occasione, a Media Inaf.
Marco, tu che hai potuto fare osservazioni da questo remoto posto della Terra, cosa ci puoi raccontare in proposito? Qual è la tua esperienza diretta, di quel cielo?
«È un cielo che ti dona qualcosa di indescrivibile a parole, e non mi riferisco allo spettacolo offerto dall’aurora che danza di fianco alla Via Lattea, o al piacere visivo del contemplare una notte lunga tre mesi, priva di inquinamento luminoso. C’era qualcosa di più profondo, il percepire la vita nel cosmo intero. Una sensazione forse dovuta al fatto di essere irraggiungibili e isolati dal resto del mondo, amplificata dalla nostalgia degli altri esseri viventi: non c’erano insetti, animali, aerei che passavano sopra la nostra testa, foglie che volavano al vento, colori. Non c’era niente che si muoveva, niente e nessuno a farci compagnia. Questo estratto del mio libro Marte bianco rende l’idea (sono parole che scrissi là a Concordia, dopo due settimane dal tramonto del Sole, che poi l’editor del libro ha riscritto al passato):
Dopo due settimane, avevo consolidato un rituale: uscendo dalla base alzavo immediatamente lo sguardo al cielo alla ricerca di Marte, Giove, Saturno e Canopus. Ed erano sempre là i miei amici, a indicarmi la via come il giorno prima, vivi, checché se ne dica. Rimanevo per qualche minuto fermo a osservarli, finché il freddo dei -90 °C windchill penetrava i vari strati del mio abbigliamento protettivo fino ad arrivare alla fronte, e allora sentivo che una lacrima mi accarezzava il viso e ringraziavo per il meraviglioso regalo che la vita mi stava facendo. Era un momento mistico, nel quale realizzavo pienamente dove mi trovavo. Un attimo eterno nel quale non mi interrogavo più sul mio stato di coscienza, consapevole come lo sono oggi che non fa alcuna differenza il fatto che la realtà sia unica oppure un sogno dentro un numero illimitato di altri sogni, perché qualunque cosa sia, il misterioso fascino dell’esistenza è di una bellezza e perfezione sconvolgenti.
Da qui, e senza esserci mai stata, mi verrebbe da dire che vorrei essere laggiù per passare le notti a testa in su, a guardare le stelle… ma in realtà la temperatura deve essere proibitiva per poterlo fare, vero? Quanto tempo si riesce a stare fuori?
«Durante l’inverno, quando la temperatura varia tra i -65°C e -80°C, si può stare fuori dai minuti sino alle ore, dipende da ciò che si fa e dal vento. Per farla breve, se ci sono -70°C e non c’è vento, puoi stare fuori anche per due ore, in movimento a scavare una fossa sulla neve (per prelevare dei campioni, cosa che facevamo una volta al mese). Se invece c’è vento, ci sono -70°C e ti levi le moffole (il guantone più esterno, che viene usato sopra almeno un altro guanto) per fare delle lavorazioni con piccoli oggetti, allora potresti dover tornare al caldo ogni 3-5 minuti per scaldare le mani».
Le fotografie che hai fatto sono bellissime: è stato difficile, in quelle condizioni estreme?
«Non è stato semplice, ma pian piano accumuli esperienza e riesci a destreggiarti sempre meglio. Prima di uscire impostavo la macchina fotografica (messa a fuoco manuale, ISO, apertura, tempo esposizione) e usavo quelle impostazione per tutta la sessione (che durava una ventina di minuti). Fuori non potevo più cambiare impostazioni perché le ghiere si congelavano e il display smetteva di funzionare dopo pochi minuti. La complessità dello scattare le foto è riassunta nella descrizione dell’immagine dell’unica eclissi di Sole fotografata da Dome-C, che riporta il messaggio che scrissi su Facebook:
Carissimi, se qualche anno fa ci avessero detto che un giorno avremmo fotografato una eclissi di Sole a -54 gradi (-68 con windchill), nel bel mezzo dell’altopiano antartico, saremmo stati quanto meno scettici. Ma nella vita tutto è possibile, e dove arriva la nostra mente può arrivare anche il nostro corpo. E così siam qua, a raccontarvi la storia di questa foto, iniziata 3 settimane fa, quando il mio caro collega Sergio Poppi, dell’Osservatorio astronomico di Cagliari, mi ha avvisato di questa eclissi. Sveglia alle 2:30 di notte (per modo di dire…), e via fuori con Filippo per cercare la postazione migliore da cui fotografare eclissi e base assieme, mentre Mario ed il doc Alberto ci assistevano via radio dalla base. Abbiamo camminato parecchio, circa 30 minuti, in modo da allontanarci a sufficienza dalla base, altrimenti non saremmo riusciti a includerla assieme al Sole nel ristretto angolo visivo del teleobiettivo. Ma questo primo tentativo è fallito miseramente, a causa della poca esperienza con l’inverno antartico. Fissato il treppiede mi son reso conto che non potevo più regolarlo, perché era congelato. Non potevo impostare il tempo di scatto, perché la ghiera della macchina fotografica aveva smesso di funzionare per il freddo. Mi ero levato le moffole e avevo solamente i sottoguanti, in modo da poter maneggiare meglio macchina e treppiede, e per di più mi ero levato la maschera protettiva per gli occhi, perché la visiera era congelata e mi impediva di vedere, per cui dopo due minuti mi si stavano letteralmente congelando mani e visto. Abbandonata l’idea di fare una foto contestualizzata, siamo passati al piano B: tornare in base, riscaldarci e fotografare solamente il Sole parzialmente coperto dalla Luna. Nel frattempo Cyprien, Carmen e Jacques erano appena usciti per guardare l’eclisse, di fronte alla base, mentre Marco Smerilli e gli altri dormivano beatamente. Con Filippo siamo saliti di corsa per la scala di servizio che porta sul tetto di una delle due torri, dove ci attendevano Alberto e Moreno Baricevic. Giusto il tempo di sistemare il treppiede, levare la macchina dallo zaino e fare qualche scatto, e poi nuovamente dentro al caldo, perché le mani erano ormai insensibili e avevo l’impressione che mi si stessero congelando le retine degli occhi. Troppa adrenalina per dormire, e troppe energie spese al freddo, per cui alle 4:30 con Mario, Alberto e Moreno ci siamo ritrovati in cucina per mangiare del pane con prosciutto, bere qualcosa di caldo e farci due risate, per poi ritirarci ciascuno nella sua camera da letto.
Questa invece è la descrizione della prima foto notturna che feci:
Carissimi, qua tutto bene. Ultimamente le giornate sono abbastanza routinarie, senza particolari novità. Ho provato a fotografare la Luna piena, ma è estremamente difficile con questo freddo. Ieri è andata male: mi sono allontanato dalla base e son stato fuori per più di 30 minuti, a -60°C, così mi si è congelata tutta l’attrezzatura, e anche i polpastrelli delle dita. Oggi secondo tentativo, andato meglio. La Luna fortunatamente è sorta proprio di fronte all’ingresso della base, così con Pippo Ca (grazie Filippo!!!), il soggetto di questa foto, non abbiamo dovuto fare tanta strada. Circa 30 metri e ho posizionato macchina fotografica e treppiede, mentre Filippo andava a mettersi in posa a 50 metri da me. Due scatti: uno con Filippo a fuoco e il secondo con la Luna a fuoco, uniti successivamente per dar luogo a questa immagine. C’è molta turbolenza nell’aria (sino a 30 metri di quota), e questa genera rifrazione dei raggi luminosi, come si nota dal contorno della Luna.
Cosa ti è piaciuto di più fotografare?
«Come puoi intuire dalla foto, il mio soggetto preferito era il cielo».
Quel cielo, ora, ti manca?
«Mi manca tutto di quel posto, compresi i preparativi per la partenza e le sensazioni del rientro al mondo normale. Ti lascio con un profondo sospiro, dovuto al ripensare a quella fantastica esperienza».
Per saperne di più:
- Leggi il libro Marte bianco. Nel cuore dell’Antartide. Un anno ai confini della vita, di Marco Buttu
- Leggi su Nature l’articolo “Night-time measurements of astronomical seeing at Dome A in Antarctica” di Bin Ma, Zhaohui Shang, Yi Hu, Keliang Hu, Yongjiang Wang, Xu Yang, Michael C. B. Ashley, Paul Hickson e Peng Jiang