“Quando Albert Einstein nel ’17 stabilì in maniera concreta i fondamenti teorici del futuro raggio laser – nella pubblicazione Zur Quantentheorie der Strahlung – si premurò di chiarire che il dispositivo finale avrebbe dovuto essere molto intrippante”, afferma sarcasticamente il celebre scienziato Sheldon Cooper in una puntata di Big Bang Theory prima di eseguire, dal tetto del condominio, l’esperimento del laser sulla Luna. Effettivamente, pare che esista un laser “più intrippante” di quelli usati finora per fare questo tipo di misure.
Negli ultimi dieci anni, dozzine di volte gli scienziati della Nasa hanno inviato raggi laser verso un riflettore delle dimensioni di un romanzo tascabile a circa 385mila chilometri dalla Terra. Ma solo oggi hanno annunciato – in collaborazione con i loro colleghi francesi – di aver ricevuto per la prima volta il segnale di ritorno: un risultato incoraggiante, che potrebbe migliorare gli esperimenti laser utilizzati per studiare la fisica dell’universo.
Il riflettore a cui hanno mirato non sta sulla Luna: è montato sul Lunar Reconnaissance Orbiter (Lro), un satellite che studia la Luna dal 2009 dalla sua orbita selenocentrica. Uno dei motivi per cui gli ingegneri hanno posizionato un riflettore su Lro è stato perché hanno immaginato potesse servire un bersaglio incontaminato per permettere di testare il potere riflettente dei pannelli lasciati sulla superficie della Luna circa 50 anni fa. Purtroppo, questi vecchi riflettori stanno restituendo un segnale debole, il che rende più difficile utilizzarli per scopi scientifici.
Gli scienziati hanno utilizzato i riflettori sulla Luna sin dall’era Apollo, per saperne di più sulla nostra vicina più prossima. L’esperimento è abbastanza semplice: si punta un raggio di luce laser verso il riflettore e si calcola il tempo necessario affinché la luce ritorni sulla Terra. Decenni di queste misurazioni hanno portato a importanti scoperte. Una delle più grandi rivelazioni è che la Terra e la Luna si stanno lentamente allontanando alla velocità con cui crescono le unghie: 3.8 centimetri all’anno, come conseguenza dell’interazione gravitazionale tra i due corpi.
«Ora che raccogliamo dati da 50 anni, possiamo vedere tendenze che altrimenti non saremmo stati in grado di osservare», spiega Erwan Mazarico, scienziato planetario del Goddard Space Flight Center della Nasa a Greenbelt, nel Maryland, che ha coordinato l’esperimento Lro descritto il 7 agosto sulla rivista Earth, Planets and Space.
Ma se gli scienziati vogliono continuare a utilizzare i pannelli riflettenti nel futuro, devono assolutamente capire perché alcuni di essi restituiscono solo un decimo del segnale previsto.
Ci sono cinque pannelli riflettenti sulla Luna. Due furono posizionati dagli equipaggi dell’Apollo 11 e 14, rispettivamente nel 1969 e nel 1971. Ciascuno di essi è composto da 100 specchi chiamati corner cube, poiché si presentano come le facce di un cubo di vetro. Il vantaggio di questi specchi è che possono riflettere la luce verso la direzione di provenienza. Un altro pannello con 300 corner cube è stato lasciato dagli astronauti dell’Apollo 15, nel 1973. I rover robotici sovietici Lunochod 1 e 2, atterrati nel 1970 e nel 1973, hanno trasportato due riflettori aggiuntivi, con 14 specchi ciascuno.
Nel loro insieme, questi riflettori costituiscono l’ultimo esperimento scientifico funzionante dell’era Apollo.
Alcuni esperti sospettano che, nel tempo, la polvere possa essersi depositata sui riflettori – forse dopo essere stata sollevata dagli impatti di micrometeoriti sulla superficie della Luna – e che tale polvere potrebbe impedire alla luce di raggiungere gli specchi, isolandoli e facendoli surriscaldare e diventare meno efficienti. Gli scienziati speravano di utilizzare il riflettore di Lro per verificare questa ipotesi. Hanno pensato che se avessero trovato una discrepanza nella luce riflessa dal riflettore di Lro rispetto a quelli di superficie, avrebbero potuto usare modelli computerizzati per verificare se la polvere, o qualcos’altro, fosse responsabile dell’attenuazione. Ma nonostante il successo dei primi esperimenti, Mazarico e il suo team non hanno ancora risolto la questione della polvere e ora stanno perfezionando la tecnica in modo da poter raccogliere più misurazioni.
Nel frattempo, si continua a fare affidamento sui riflettori posti sulla superficie del nostro satellite naturale per imparare cose nuove, nonostante il segnale sia più debole del previsto. Misurando il tempo impiegato dalla luce laser per rimbalzare indietro – circa 2.5 secondi in media – i ricercatori possono calcolare la distanza tra le stazioni laser terrestri e i riflettori lunari fino a meno di pochi millimetri: lo spessore di una buccia d’arancia.
Oltre alla deriva Terra-Luna, tali misurazioni – effettuate su un lungo periodo di tempo e usando diversi riflettori – hanno rivelato che la Luna ha un nucleo fluido. È possibile dirlo monitorando le più piccole oscillazioni mentre la Luna ruota. Ciò che vorrebbero sapere ora è se, all’interno di quel nucleo fluido, esiste un nucleo solido. Le misurazioni magnetiche dei campioni lunari riportati sulla Terra dagli astronauti dell’Apollo hanno rivelato qualcosa che nessuno si aspettava, data la dimensione della Luna: miliardi di anni fa, il nostro satellite possedeva un campo magnetico. Si tratta ora di capire cosa l’abbia generato. Conoscere l’interno del nostro satellite, oltre a permettere di comprenderne l’evoluzione, potrebbe anche fare luce sui tempi con i quali il campo magnetico si è estinto. Gli esperimenti laser permettono di rivelare se c’è materiale solido nel nucleo della Luna, che avrebbe potuto aiutare ad alimentare il campo magnetico ora estinto. Ma per saperne di più, gli scienziati devono prima conoscere la distanza tra le stazioni terrestri e i riflettori lunari con un grado di accuratezza maggiore rispetto agli attuali pochi millimetri.
Per migliorare la precisione della misura, si possono portare più fotoni sulla Luna e farli ritornare a Terra, tenendo conto di quelli persi a causa della polvere. Ma sembra più facile a dirsi che a farsi.
Considerate i pannelli sulla superficie della Luna. Occorre prima individuare la posizione precisa di ciascuno, che cambia costantemente con l’orbita della Luna. Poi, i fotoni laser devono viaggiare due volte attraverso la spessa atmosfera terrestre, che tende a disperderli. Quindi, quello che parte come un raggio di luce largo pochi metri, quando raggiunge la superficie della Luna può estendersi a più di 2 chilometri, diventando molto più ampio quando rimbalza indietro. Ciò si traduce in una possibilità su 25 milioni che un fotone lanciato dalla Terra raggiunga il riflettore dell’Apollo 11. Per i pochi fotoni che riescono a raggiungere la Luna, c’è una possibilità ancora inferiore, una su 250 milioni, che tornino indietro.
Se queste probabilità vi sembrano scoraggianti, sappiate che raggiungere il riflettore di Lro è ancora più difficile. Uno di questi riflettori è un decimo delle dimensioni dei pannelli più piccoli dell’Apollo 11 e 14, con solo 12 specchi corner cube, collegato a un obiettivo in rapido movimento delle dimensioni di un’auto compatta che è oltre 500 volte più distante da noi di quanto lo sia Roma da Aosta. Anche il tempo meteorologico nei pressi della stazione laser influisce sul segnale luminoso, così come l’allineamento del Sole, della Luna e della Terra. Ecco perché, nonostante diversi tentativi nell’ultimo decennio, gli scienziati del Goddard non sono stati in grado di raggiungere il riflettore di Lro fino a oggi, grazie anche alla collaborazione con i ricercatori francesi.
Il loro successo si basa sull’utilizzo di una tecnologia avanzata sviluppata dal team Géoazur presso l’Université Côte d’Azur per una stazione laser a Grasse, in Francia, in grado di inviare radiazione infrarossa fino a Lro. Un vantaggio dell’utilizzo della luce infrarossa è che penetra nell’atmosfera terrestre meglio della lunghezza d’onda verde della luce visibile che gli scienziati hanno tradizionalmente utilizzato. Ma anche con la luce infrarossa, il telescopio di Grasse ha ricevuto solo circa 200 fotoni su decine di migliaia di impulsi lanciati a Lro durante alcune date nel 2018 e 2019, riferiscono Mazarico e il suo team nel loro articolo.
Sembra poco, ma in realtà anche pochi fotoni nel tempo potrebbero aiutare a rispondere alla domanda sulla polvere sui riflettori sulla superficie della Luna. Essere riusciti a misurare il raggio laser di ritorno è un successo che dimostra come sia possibile utilizzare il laser a infrarossi per un monitoraggio preciso delle orbite della Terra e della Luna, servendosi anche di piccoli riflettori che potrebbero essere installati sui futuri lander lunari commerciali della Nasa. Per questo motivo, alcuni scienziati auspicano l’invio di riflettori nuovi e migliorati in più regioni della Luna, cosa che la Nasa sta pianificando di fare. Altri chiedono che più strutture in tutto il mondo siano dotate di laser a infrarossi in grado di inviare raggi laser sulla Luna da diverse angolazioni, il che può migliorare ulteriormente la precisione delle misurazioni della distanza. Nuovi approcci che sfruttano raggi laser come questi possono garantire che l’eredità di questi studi fondamentali continui a perpetuarsi e a dare i suoi frutti.
Ovviamente, come direbbe Leonard, “non c’è pericolo per la Luna, il laser è settato su stordimento”.
Per saperne di più:
- Leggi su Earth, Planets and Space l’articolo “First two-way laser ranging to a lunar orbiter: infrared observations from the Grasse station to LRO’s retro-reflector array” di Erwan Mazarico, Xiaoli Sun, Jean-Marie Torre, Clément Courde, Julien Chabé, Mourad Aimar, Hervé Mariey, Nicolas Maurice, Michael K. Barker, Dandan Mao, Daniel R. Cremons, Sébastien Bouquillon, Teddy Carlucci, Vishnu Viswanathan, Frank G. Lemoine, Adrien Bourgoin, Pierre Exertier, Gregory A. Neumann, Maria T. Zuber e David E. Smith