TRE ARTICOLI PUBBLICATI SU NATURE ASTRONOMY

Astronomia e cambiamenti climatici

La crisi climatica è una delle sfide principali del nostro tempo. Nell'ultimo numero della rivista Nature Astronomy, ben tre articoli affrontano il tema prendendo in considerazione il problema da due prospettive diverse ma complementari: l’influenza che i cambiamenti climatici hanno sulla ricerca astronomica e il contributo, in termini di CO2 emessa, delle attività legate alla ricerca astronomica ai mutamenti climatici

     14/09/2020

L’iconica immagine “pallido punto blu” scattata dalla sonda Voyager nel 1990. Mostra la Terra, visibile come un minuscolo punto all’interno di una delle strisce, da una prospettiva astronomica unica: un pianeta abitabile relativamente piccolo rispetto all’ambiente ostile dello spazio. Le strisce sono causate dalla luce solare dispersa che penetra nella fotocamera. Crediti: Nasa

Le prove ci sono: le emissioni di gas serra dovute all’attività umana stanno trasformando il pianeta su cui viviamo.

I risultati delle ricerche di pianeti in orbita attorno a stelle diverse dal Sole, in combinazione con l’immensità delle distanze astronomiche che ci separano da questi mondi, ci rende consapevoli del fatto che non esiste un pianeta B. Quello A, dunque, dobbiamo tenercelo stretto, cercando di contrastare i cambiamenti climatici. La comunità scientifica astronomica deve fare la sua parte per contribuire alla causa, anche perché ci guadagnano e ci guadagniamo tutti in termini di qualità delle osservazioni, quindi di risultati e scoperte.

L’ultimo rapporto di sintesi (Ar5) dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc) – l’organo delle Nazioni Unite per la valutazione della scienza relativa al cambiamento climatico – parla chiaro: l’influenza umana sul sistema climatico è evidente e le recenti emissioni di origine antropica di gas serra sono le più alte della storia. A queste emissioni contribuisce anche la ricerca scientifica, compresa quella astronomica.

Più in particolare, la ricerca astronomica e la crisi climatica sono due facce della stessa medaglia: da un lato le osservazioni astronomiche sono sempre più influenzate dal mutamento climatico, dall’altro lato gli astronomi sono consapevoli di contribuire con le loro attività a buona parte di queste emissioni di gas serra e quindi al riscaldamento globale, uno degli effetti dei cambiamenti climatici stessi.

Proprio partendo da questa consapevolezza, un team di astronomi provenienti da tutto il mondo ha analizzato il rapporto tra astronomia e cambiamenti climatici, riportando i risultati del loro studio in tre articoli presentati durante la sessione speciale Astronomy for Future della annuale conferenza (virtuale) della Società Astronomica Europea (Eas 2020), ora pubblicati sulla rivista Nature Astronomy.

Nel primo di questi articoli, un team di astronomi del Max Planck Institute for Astronomy (Mpia) di Heidelberg in Germania, riporta il calcolo dell’impronta di carbonio (Carbon footprint, in inglese) lasciata dal proprio istituto, che permette di stimare le emissioni di anidride carbonica – un gas serra – prodotte dall’attività di ricerca dell’istituto, ad esempio attraverso voli intercontinentali per partecipare a conferenze o per effettuare osservazioni presso gli osservatori dislocati nel mondo. Senza tralasciare nel computo il consumo di elettricità delle energivore strutture di supercalcolo, alle quali gli astronomi si affidano sia per le simulazioni che per l’analisi dei dati. Secondo questi calcoli, per le sole attività di ricerca del 2018, Mpia ha contribuito all’emissione di gas serra con 18 tonnellate di anidride carbonica per scienziato, quasi il doppio rispetto alle emissioni di anidride carbonica pro-capite in Germania. Il rapporto è stato pubblicato dal Joint Research Centre (Jrc) della Commissione europea Fossil CO2 emissions of all world countries.

«Noi astronomi siamo responsabili delle nostre emissioni provenienti dalla combustione di combustibili fossili» afferma Knud Jahnke, group leader a Mpia e primo autore dell’articolo. «Ma la riduzione è raramente una questione di scelta personale. Abbiamo bisogno di un’analisi della provenienza di tali emissioni e capire se dobbiamo agire a livello di istituto, a livello di intera comunità astronomica oppure a livello di società nel suo insieme, al fine di realizzare una riduzione sostanziale delle emissioni».

Una riduzione delle emissioni, che secondo lo scienziato  si può ottenere solo agendo sulle cause del problema – ovvero spostando le strutture di supercalcolo in luoghi in cui l’energia elettrica è prodotta prevalentemente da fonti rinnovabili o dove il raffreddamento è più facile – l’Islanda, dicono gli autori, è una scelta possibile, riducendo i voli legati alle conferenze astronomiche, tradizionalmente tenute on-site, con partecipanti provenienti da tutto il mondo che si recano in aereo sul luogo dell’evento, contribuendo all’emissione di CO2. Un tema, questo delle conferenze e della produzione di CO2 connessa, approfondito nella seconda pubblicazione. L’articolo mette a confronto l’impronta del carbonio degli ultimi due incontri annuali della Società Astronomica Europea: quello del 2019 svoltosi on-site, a Lione, in Francia, con più di 1200 partecipanti, e quello del 2020, avvenuto on-line a causa della pandemia da Covid-19, con quasi 1800 partecipanti. Che le emissioni di CO2 per una conferenza online siano molto minori rispetto a una conferenza in presenza è facilmente intuibile, ma che lo siano di 3000 volte ha lasciato gli astronomi abbastanza di stucco.

Come per molti di noi, compreso me che vi scrivo, la pandemia sta attualmente costringendo gli astronomi a sperimentare il lavoro online. Meeting, conferenze, riunioni di istituto, riunioni di progetto, coffee talk: tutto si svolge online, sulle principali piattaforme web. In alcuni casi, come per le conferenze plenarie, svolgere online questi incontri forse cambierebbe poco – ed è una possibilità che sarebbe seriamente da valutare, vista la riduzione dell’emissione che ne conseguirebbe – tuttavia, non bisogna dimenticarsi dell’importanza che svolgono gli incontri faccia a faccia, i contatti personali e le relazioni sociali che una conferenza tradizionale consente. Un tema delicato sul quale nostro malgrado ci confronteremo nei prossimi mesi.

Secondo Leonard Burtscher, ricercatore dell’Università di Leida (Paesi Bassi) e primo autore dell’articolo «Una soluzione potrebbe essere quella di fare conferenze faccia a faccia che si svolgano in più luoghi contemporaneamente, consentendo ai partecipanti di viaggiare in treno e di avere relazioni sociali in ogni “hub della conferenza”, mentre i colloqui plenari potrebbero essere in videoconferenza».

I quattro telescopi da 8 metri e i quattro telescopi ausiliari che compongono il Very Large Telescope (VLT) all’osservatorio Paranal dell’Eso, in Cile. Nella pianificazione per il futuro, gli astronomi dovranno tenere conto degli effetti negativi della crisi climatica sulle loro osservazioni. Crediti: Eso/S. Brunier

Mentre gli  articoli dei quali abbiamo parlato fin qui si concentrano sull’impatto delle attività di ricerca astronomica sui cambiamenti climatici, un terzo articolo prende in esame il rovescio della medaglia: la misura in cui il cambiamento climatico sta influenzando l’astronomia, più specificamente la qualità delle osservazioni astronomiche. Per la loro analisi, la ricercatrice di Mpia Faustine Cantalloube e il suo team si sono concentrati su uno dei più moderni e produttivi siti di osservazione al mondo: l’Osservatorio di Paranal dell’European Southern Observatory (Eso), in Cile, per il quale esiste un insieme esauriente di dati raccolti dai sensori ambientali negli ultimi tre decenni. Nel sito, spiegano gli autori, negli ultimi quarant’anni c’è stato un aumento della temperatura media di 1.5 gradi Celsius. Tale aumento crea difficoltà con il raffreddamento di uno degli strumenti più importanti al mondo per lo studio dell’universo: il Very Large Telescope (Vlt). Affinché funzioni correttamente e le osservazioni non siano alterate, di giorno le strutture che ospitano i quattro telescopi del Vlt vengono raffreddate alle temperature presenti durante la notte, per evitare che perturbazioni interne all’apertura della cupola al tramonto, non modifichino la qualità delle osservazioni. L’aumento della temperatura media giornaliera rende il completo raffreddamento impossibile, con conseguente alterazione delle osservazioni.

Inoltre, gli strumenti all’avanguardia installati presso i telescopi del Vlt sono sensibili a proprietà specifiche dell’atmosfera, come il contenuto di vapore acqueo e il movimento di masse d’aria. Paranal si trova sotto l’influsso di correnti a getto la cui forza è legata all’ampiezza degli eventi del fenomeno chiamato El Niño. Sebbene i dati disponibili finora non mostrino tendenze significative, si prevede che gli eventi legati a questo fenomeno aumenteranno di ampiezza nei prossimi decenni, con il progredire della crisi climatica.

Gli astronomi dovranno tenere conto di questi e di altri effetti anche in vista della costruzione dei futuri telescopi, per esempio l’Extremely Large Telescope (Elt), valutando a priori come le condizioni di osservazione possano cambiare con le peggiori proiezioni possibili: un aumento di circa 4 gradi Celsius nel prossimo secolo e forti cambiamenti nella circolazione atmosferica globale. Urge, dunque, un cambiamento, che gli astronomi con queste pubblicazioni sperano di facilitare all’interno della comunità scientifica.  «Come astronomi siamo immensamente fortunati a lavorare in un campo così affascinante» sottolinea Cantalloube. «Con la nostra prospettiva unica sull’universo, è nostra responsabilità comunicare, all’interno e fuori dalla nostra comunità scientifica, le conseguenze disastrose del cambiamento climatico di origine antropica sul nostro pianeta e sulla nostra società».

Ora spetta alla comunità scientifica, così come alle autorità che creano l’ambiente per la ricerca scientifica, agire in base a queste informazioni, concludono gli autori.  Una via da seguire c’è: continuare la ricerca astronomica, con la sua capacità unica di mettere il pianeta Terra e il suo ambiente in una prospettiva più ampia, riducendo l’impronta di carbonio.

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