Novità dal fronte dei diamanti extraterrestri. Sembra da scartare l’ipotesi secondo la quale i diamanti scoperti nelle ureiliti, un particolare tipo di meteoriti, sarebbero originati in pianeti delle dimensioni di Marte o Mercurio. L’origine del minerale nei corpi celesti sembrerebbe invece conseguente a uno shock da impatto.
Lo studio – recentemente pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America da un team internazionale di ricercatori guidato da Fabrizio Nestola del Dipartimento di Geoscienze dell’Università di Padova – si è basato sull’analisi di alcuni tra i frammenti di diamante di origine extraterrestre più grandi mai scoperti in un meteorite (il ritrovamento risale al 2018): un microdiamante di oltre un decimo di millimetro (>100 micrometri) solo apparentemente minuscolo, ma non se lo confrontiamo con quelli ritrovati finora, nanodiamanti cento o mille volte più piccoli.
L’origine dei diamanti in questo tipo di meteoriti è una questione ancora molto dibattuta nel campo della geologia planetaria, anche per le sue implicazioni significative sulle dimensioni dei corpi primordiali del Sistema solare. Le ureiliti sono meteoriti rocciose molto simili alle rocce del mantello terrestre che però presentano una composizione mineralogica differente e fanno parte di una grande categoria di meteoriti chiamate acondriti.
Le tre ureiliti studiate – due del gruppo di frammenti Almahata Sitta e uno del gruppo principale NWA 7983 – sono state analizzate con un approccio multimetodologico utilizzando la microscopia elettronica a scansione, la microdiffrazione dei raggi x e la spettroscopia micro-Raman. In particolare, nel gruppo NWA 7983 è stata riscontrata un’associazione molto stretta di “grandi” diamanti monocristallini (fino ad almeno 100 micrometri) con nanodiamanti, nanografite, grani nanometrici di ferro metallico e altri minerali.
Secondo i ricercatori, la coesistenza di nanodiamanti e cristalli di “grandi” dimensioni (microdiamanti) in una ureilite può essere spiegata dalla trasformazione della grafite in diamante durante un evento di shock d’impatto caratterizzato da pressioni molto elevate (a partire da 15 GPa) protratte per una durata relativamente lunga (dell’ordine di alcuni secondi). Un evento di questo tipo ha la capacità di catalizzare una reazione di metamorfismo, ovvero un cambiamento di assetto a livello atomico nel minerale.
Ricordiamo infatti che la grafite è il minerale polimorfo a bassa pressione del carbonio puro, mentre il diamante è il polimorfo di alta pressione. Era già noto che i nanodiamanti extraterrestri si potessero formare a seguito di grandi impatti e che sono in grado di indurre profonde trasformazioni nella materia a causa delle alte pressioni e temperature che si sprigionano durante questo tipo di eventi. Nei corpi celesti si presentano quindi circostanze idonee per cui la grafite può trasformarsi in diamante.
Studi precedenti avevano ipotizzato che la formazione di questo tipo di diamanti avvenisse a pressioni statiche molto elevate (superiori a 20 GPa) e con lunghi tempi di crescita, condizioni assimilabili a quelle degli interni di un grande corpo planetario, proprio come nel caso dei diamanti formatisi nelle profondità all’interno del mantello terrestre. I diamanti terrestri si dividono infatti in due grandi categorie: i diamanti litosferici (preziosi in gioielleria), che si formano tra i 120 e i 250 chilometri di profondità e quelli molto più rari detti super profondi, che invece hanno origine tra i 300 e i 1000 chilometri di profondità (solo il 6% della popolazione mondiale dei diamanti).
Alla luce dei nuovi risultati, la formazione di cristalli di diamante di “grandi” dimensioni potrebbe spiegarsi con la presenza del gruppo metallico Fe-Ni-C che durante questi eventi shock coesiste con la grafite e che potrebbe aver avuto il ruolo di catalizzare il processo di trasformazione della grafite in diamante.
«Lavoro spesso sui diamanti terrestri ma questa volta ho avuto la fortuna e il piacere di trovare diamanti extraterrestri, peraltro molto più grandi di quanto ci si aspettava» racconta Fabrizio Nestola, primo autore dello studio. «Non sono misure da cui ci si fa un solitario» scherza Nestola, «ma per noi geologi sono molto grandi». E continua: «I nostri risultati mostrano che la formazione di microdiamanti e nanodiamanti nelle ureiliti può essere spiegata da shock da impatto su un piccolo planetesimo e non richiede lunghi tempi di crescita ad alte pressioni statiche all’interno di un corpo di dimensioni Mercurio o Marte, come ipotizzato in precedenza».
«Finora questo tipo di diamanti sono stati ritrovati sempre in associazione al ferro metallico che potrebbe giocare un ruolo fondamentale nella trasformazione della grafite a diamante, in particolare in caso di impatto prolungato, di 3-4 secondi» conclude Nestola.
Sarebbe quindi la compresenza del carbonio (la grafite) e del ferro ad accelerare, in caso di impatti, il processo di formazione dei diamanti che risulterebbe quindi indipendente dalle dimensioni del corpo genitore.
Per saperne di più:
- Leggi su Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America l’articolo “Impact shock origin of diamonds in ureilite meteorites” di Fabrizio Nestola, Cyrena A. Goodrich, Marta Morana, Anna Barbaro, Ryan S. Jakubek, Oliver Christ, Frank E. Brenker, M. Chiara Domeneghetti, M. Chiara Dalconi, Matteo Alvaro, Anna M. Fioretti, Konstantin D. Litasov, Marc D. Fries, Matteo Leoni, Nicola P. M. Casati, Peter Jenniskens, and Muawia H. Shaddad