Si chiamano bolometri e sono rivelatori sensibili alle microonde. Così come i fotorecettori che formano la retina dei nostri occhi sono in grado di convertire un segnale ottico in un segnale elettrico, i bolometri permettono di convertire in segnali elettrici la radiazione a microonde. Sono dunque dispositivi cruciali in numerosi settori, dai circuiti per i computer quantistici all’astrofisica – in particolare, la radioastronomia, la cosmologia e la ricerca di potenziali particelle di materia oscura quali gli assioni. Come i fotorecettori dei nostri occhi, però, i bolometri fanno fatica a vedere al buio: con le tecnologie attuali, la sensibilità dei migliori bolometri commerciali – basati sul silicio e sull’arseniuro di gallio – si aggira, a temperatura ambiente, attorno al nanowatt (un miliardesimo di watt) per secondo.
Ora però, grazie a una nuova tecnologia basata sull’impiego di giunzioni Josephson con fogli di grafene monostrato, un gruppo di ricercatori è riuscito a spingere la sensibilità dei bolometri fino a un attowatt (un miliardesimo di miliardesimo di watt) per secondo. Il risultato, descritto la settimana scorsa su Nature, è opera di un team internazionale del quale fanno parte scienziati del PosTech (Corea del Sud), della Raytheon Bbn Technologies (Usa), della Harvard University, del Mit, del Barcelona Institute of Science and Technology (Spagna) e del National Institute for Materials Science giapponese.
Per capire come siano potuti arrivare a prestazioni così spinte, occorre anzitutto considerare il principio di funzionamento di un bolometro. Di solito è formato da tre materiali che assolvono ad altrettante funzioni: uno assorbe la radiazione elettromagnetica (tipicamente, i fotoni a microonde), un altro la converte in calore e un terzo converte il calore in resistenza elettrica. La strategia normalmente adottata per aumentare l’efficienza della risposta termica nei bolometri standard, realizzati con diodi semiconduttori, è quella di massimizzare il rapporto fra superficie e volume del materiale, ma ciò comporta un’elevata contaminazione superficiale che, a sua volta, limita l’efficienza di accoppiamento. L’impiego, come materiale per assorbire le microonde, del grafene permette di ovviare a questo problema. Costituito da uno strato di atomi di carbonio, il grafene ha una capacità termica elettronica molto ridotta. Di conseguenza, è sufficiente che venga assorbita una quantità minima di energia per provocare una notevole variazione di temperatura. Esattamente ciò che occorre per un buon bolometro: i fotoni a microonde hanno energia molto bassa, ma se assorbiti dal grafene generano comunque un forte aumento della temperatura
Anche questa tecnica – non del tutto inedita: qui su Media Inaf ne avevamo già parlato due anni fa – pone però un problema: nel grafene, la temperatura aumenta in modo significativo ma effimero. Sale e scende repentinamente, rendendo assai difficile misurare la variazione. È qui che entra in gioco l’impiego della giunzione Josephson: un dispositivo quantistico formato da due strisce di superconduttori separate da un isolante – in questo caso il grafene, appunto. L’adozione di giunzioni Josephson consente la lettura delle variazioni di resistenza elettrica, causate dalle variazioni di temperatura, in meno di 10 picosecondi. Ecco così che i bolometri descritti ora su Nature sono in grado di arrivare alla sensibilità di un attowatt (un miliardesimo di miliardesimo di watt) per secondo, raggiungendo il limite fondamentale imposto dalle fluttuazioni termiche intrinseche a 0,19 kelvin.
«Il nostro studio ha individuato una tecnologia scalabile per i dispositivi quantistici di prossima generazione», osserva il primo autore dell’articolo, il fisico del PosTech Gil-Ho Le. «Quella che abbiamo sviluppato è una tecnologia bolometrica che consente di contare i fotoni a microonde assorbiti per unità di tempo. Ora stiamo sviluppando una tecnologia per rivelatori a singolo fotone in grado di distinguere ogni fotone a microonde».
«Abbiamo notato che il nostro lavoro suscita un interesse inatteso da parte dei radioastronomi che studiano le origini dell’universo e dei fisici delle particelle che si occupano di materia oscura», aggiunge Kin Chung Fong della Raytheon BbnTechnologies. «È un esempio di come la ricerca di base possa trovare applicazione in numerosi campi della scienza».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “Graphene-based Josephson junction microwave bolometer”, di Gil-Ho Lee, Dmitri K. Efetov, Woochan Jung, Leonardo Ranzani, Evan D. Walsh, Thomas A. Ohki, Takashi Taniguchi, Kenji Watanabe, Philip Kim, Dirk Englund e Kin Chung Fong