Nell’ultimo quarto di secolo, gli astronomi hanno scoperto oltre 4300 pianeti intorno a stelle diverse dal Sole, o esopianeti, e il loro numero continua inesorabilmente ad aumentare, grazie anche al fiorire di nuovi strumenti e missioni dedicate alla ricerca di questi mondi lontani. La maggior parte di essi è però stata scoperta attraverso metodi indiretti, ovvero misurando gli effetti del pianeta sulla sua stella ospite, e solo per circa l’un percento è stato possibile effettuare osservazioni dirette.
Un nuovo studio, guidato da Mathias Nowak dell’Università di Cambridge, nel Regno Unito, e pubblicato su Astronomy & Astrophysics, si spinge un po’ più avanti, catturando per la prima volta l’immagine di un pianeta scoperto in precedenza mediante il metodo delle velocità radiali. Questo metodo – che rivela la presenza di un pianeta attraverso le minuscole oscillazioni nel moto della stella che lo ospita, impresse nello spettro della stella mentre questa, insieme al pianeta, ruota intorno al comune centro di massa del sistema – permette di stimare la massa degli esopianeti.
Il pianeta in questione si chiama Beta Pictoris c, è un gigante di gas circa otto volte più massiccio di Giove e ruota intorno alla giovane stella Beta Pictoris, la seconda più brillante nella costellazione del Pittore, visibile dall’emisfero meridionale. Scoperto l’anno scorso da un team guidato da Anne-Marie Lagrange, ricercatrice del Cnrs presso l’Institut de Planétologie et d’Astrophysique de Grenoble, si trova a circa 400 milioni di chilometri, o 2.7 unità astronomiche (au), dalla sua stella – più della distanza di Marte dal Sole e meno di quella di Giove.
Rivelare un esopianeta con un secondo metodo non rappresenta soltanto una conferma indipendente della scoperta originaria, ma offre una serie di dati complementari per studiarlo più a fondo. In questo caso, l’osservazione diretta ha fornito una misura della sua luminosità intrinseca – il calore che il pianeta rilascia mentre si raffredda, retaggio della sua formazione.
«Questo significa che adesso possiamo ottenere sia la luminosità che la massa di questo esopianeta», spiega Nowak. Un risultato mai ottenuto prima per un pianeta extrasolare.
E non mancano le sorprese. Si sa che Beta Pictoris c non è solo ma ha un compagno: il più celebre Beta Pictoris b, scoperto nel 2008 da Lagrange e collaboratori usando proprio il metodo dell’osservazione diretta, che funziona al meglio per pianeti molto distanti dalla loro stella ospite. Infatti, Beta Pictoris b si mantiene a circa 1300 milioni di chilometri (9 au) dalla sua stella – equivalente all’incirca alla distanza di Saturno dal Sole.
Il nuovo studio mostra che, mentre le masse dei due pianeti sono simili – con quella di Beta Pictoris b intorno a 11 volte la massa di Giove – il più interno Beta Pictoris c risulta ben sei volte meno luminoso del suo compagno più esterno, con una temperatura di 1250 K (977ºC).
«Come regola generale, più massiccio è un pianeta, più è luminoso», ricorda Nowak. Ma l’esatta relazione tra la massa e la luminosità di un pianeta dipende da come il pianeta si è formato, ed è qui che i nuovi risultati chiamano in causa gli scenari di formazione planetaria.
Ci sono due classi di modelli per spiegare l’origine dei pianeti giganti, come Giove, Saturno e i loro analoghi in altri sistemi solari. I modelli dell’instabilità del disco, o di disk instability, ipotizzano una formazione direttamente a partire dal disco di gas e polvere che circondava la stella neonata, e non contemplano la formazione di un nucleo solido all’interno del pianeta. Al contrario, i modelli di accrescimento del nucleo, o di core accretion, prevedono la formazione dal disco di un nucleo solido che, in seguito, cattura grandi quantità di gas e così forma la sostanziosa atmosfera del pianeta.
Le due classi di modelli predicono risultati diversi per quanto riguarda la massa e luminosità dei pianeti; in particolare, a parità di massa, i modelli classici di disk instability portano alla formazione di pianeti più caldi e brillanti. Nel caso di Beta Pictoris c, la stima di massa derivata in questo studio (8.2 volte la massa di Giove) sembra indicare un’origine sì calda del pianeta, ma più fredda di quanto predetto dai modelli disk instability; inoltre, secondo questo meccanismo il pianeta avrebbe dovuto prender forma più lontano dalla stella e poi migrare verso la sua posizione attuale. D’altro canto, il pianeta sembra un po’ troppo caldo per essersi formato attraverso i modelli classici di core accretion, indicando in un modello di hot core accretion, o accrescimento caldo del nucleo, come il meccanismo più probabile per la sua formazione.
Per catturare il flebile segnale luminoso proveniente da Beta Pictoris c, gli astronomi hanno utilizzato il Very Large Telescope (Vlt) dell’Eso in Cile tra febbraio e marzo 2020, ed in particolare Gravity, uno strumento ad alta precisione che opera nelle frequenze del vicino infrarosso e combina la luce proveniente dai quattro telescopi del Vlt. Grazie alla tecnica dell’interferometria, Gravity – che si trova in un laboratorio sotterraneo sotto i telescopi – può rilevare dettagli con il potere equivalente a quello di un singolo telescopio dal diametro di 130 metri, ed è per questo molto adatto ad osservare coppie di sorgenti, come un pianeta e la sua stella ospite.
«È incredibile il livello di dettaglio e sensibilità che possiamo raggiungere con Gravity», commenta Frank Eisenhauer, scienziato a capo del progetto Gravity presso il Max Planck Institute for Extraterrestrial Physics, in Germania, e tra gli autori del nuovo studio. «Stiamo solo iniziando a esplorare meravigliosi nuovi mondi, dal buco nero supermassiccio al centro della nostra galassia a pianeti al di là del Sistema solare».
Fondamentale per “scattare” la prima immagine di questo pianeta è stato un altro studio, guidato da Lagrange e pubblicato anch’esso su Astronomy & Astrophysics, che ha misurato la velocità radiale di Beta Pictoris c usando dati dello stesso Gravity, di Sphere (Spectro-Polarimetric High-contrast Exoplanet Research instrument, un altro strumento del Vlt) e di Harps, il cacciatore di esopianeti in forza da anni all’osservatorio Eso di La Silla. Questo studio, che vede la partecipazione di tre astronomi Inaf, ha permesso di stimare in modo molto preciso l’orbita del pianeta per poterne poi predire l’esatta posizione e pianificare le osservazioni con Gravity.
«Per la prima volta è stato possibile combinare tra loro tecniche molto diverse (velocità radiali di alta precisione, immagini ad alto contrasto, interferometria) con strumenti e tecniche di analisi estremamente innovativi, sviluppati solo negli ultimi anni», spiega a Media Inaf Raffaele Gratton dell’Inaf di Padova, tra gli autori dello studio sulle velocità radiali.
«Il risultato immediato di questo studio è un grande passo in avanti nella comprensione dei meccanismi di formazione dei pianeti giganti, con la prima misura accurata della massa di pianeti giovani». Beta Pictoris c ha infatti circa 18.5 milioni di anni, un “istante cosmico” in confronto ai quattro miliardi e mezzo di anni del nostro sistema solare.
«In prospettiva, le tecniche sviluppate per questo progetto possono essere applicate in modo più estensivo ad altri oggetti», aggiunge Gratton.
In futuro, gli astronomi sposteranno la loro attenzione su Beta Pictoris b, cercando di misurarne la velocità radiale – una misura che però necessita di tempi più lunghi a causa della grande distanza di questo pianeta dalla stella – per migliorare la stima della sua massa e continuare a testare i diversi meccanismi di formazione planetaria. Non sono molti i pianeti accessibili ad entrambi i metodi discussi in questi studi (osservazione diretta e velocità radiale) ma il team di ExoGravity che ha guidato questo progetto ne ha almeno un altro in mente. E sul fronte degli esopianeti, che si tratti di nuove scoperte o di studi approfonditi sugli oltre 4000 mondi già scoperti, le attività proseguono senza sosta.
«Tra qualche mese ci aspettiamo un ulteriore balzo in avanti che verrà fornito dalla terza release dei dati di Gaia che fornirà misure estremamente precise delle accelerazioni del moto delle stelle dovute a diversi pianeti extrasolari, permettendo di misurare la loro massa; un contributo in cui astronomi dell’Inaf sono particolarmente impegnati», continua Gratton. «Questo permetterà di avere un quadro molto più accurato delle regioni esterne dei sistemi planetari, complementando quanto strumenti come Tess e Cheops stanno ottenendo per quelle più interne. In una prospettiva un po’ più lunga, ulteriori dati fondamentali verranno dal James Webb Space Telescope e più tardi dagli Extremely Large Telescopes, in particolare l’Elt dell’Eso. L’Inaf partecipa attivamente sia alla realizzazione che all’utilizzazione scientifica di questi strumenti».
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “Direct confirmation of the radial-velocity planet β Pictoris c” di M. Nowak, S. Lacour, A.-M. Lagrange, P. Rubini, J. Wang, T. Stolker, R. Abuter, A. Amorim, R. Asensio-Torres, M. Bauböck, M. Benisty, J. P. Berger, H. Beust, S. Blunt, A. Boccaletti, M. Bonnefoy, H. Bonnet, W. Brandner, F. Cantalloube, B. Charnay, E. Choquet, V. Christiaens, Y. Clénet, V. Coudé du Foresto, A. Cridland, P. T. de Zeeuw, R. Dembet, J. Dexter, A. Drescher, G. Duvert, A. Eckart, F. Eisenhauer, F. Gao, P. Garcia, R. Garcia Lopez, T. Gardner, E. Gendron, R. Genzel, S. Gillessen, J. Girard, A. Grandjean, X. Haubois, G. Heißel, T. Henning, S. Hinkley, S. Hippler, M. Horrobin, M. Houllé, Z. Hubert, A. Jiménez-Rosales, L. Jocou, J. Kammerer, P. Kervella, M. Keppler, L. Kreidberg, M. Kulikauskas, V. Lapeyrère, J.-B. Le Bouquin, P. Léna, A. Mérand, A.-L. Maire, P. Mollière, J. D. Monnier, D. Mouillet, A. Müller, E. Nasedkin, T. Ott, G. Otten, T. Paumard, C. Paladini, K. Perraut, G. Perrin, L. Pueyo, O. Pfuhl, J. Rameau, L. Rodet, G. Rodríguez-Coira, G. Rousset, S. Scheithauer, J. Shangguan, J. Stadler, O. Straub, C. Straubmeier, E. Sturm, L. J. Tacconi, E. F. van Dishoeck, A. Vigan, F. Vincent, S. D. von Fellenberg, K. Ward-Duong, F. Widmann, E. Wieprecht, E. Wiezorrek, J. Woillez and the GRAVITY Collaboration
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “Unveiling the β Pictoris system, coupling high contrast imaging, interferometric, and radial velocity data” di A. M. Lagrange, P. Rubini, M. Nowak, S. Lacour, A. Grandjean, A. Boccaletti, M. Langlois, P. Delorme, R. Gratton, J. Wang, O. Flasseur, R. Galicher, Q. Kral, N. Meunier, H. Beust, C. Babusiaux, H. Le Coroller, P. Thebault, P. Kervella, A. Zurlo, A.-L. Maire, Z. Wahhaj, A. Amorim, R. Asensio-Torres, M. Benisty, J. P. Berger, M. Bonnefoy, W. Brandner, F. Cantalloube, B. Charnay, G. Chauvin, E. Choquet, Y. Clénet, V. Christiaens, V. Coudé du Foresto, P. T. de Zeeuw, S. Desidera, G. Duvert, A. Eckart, F. Eisenhauer, F. Galland, F. Gao, P. Garcia, R. Garcia Lopez, E. Gendron, R. Genzel, S. Gillessen, J. Girard, J. Hagelberg, X. Haubois, T. Henning, G. Heissel, S. Hippler, M. Horrobin, M. Janson, J. Kammerer, M. Kenworthy, M. Keppler, L. Kreidberg, V. Lapeyrère, J.-B. Le Bouquin, P. Léna, A. Mérand, S. Messina, P. Mollière, J. D. Monnier, T. Ott, G. Otten, T. Paumard, C. Paladini, K. Perraut, G. Perrin, L. Pueyo, O. Pfuhl, L. Rodet, G. Rodriguez-Coira, G. Rousset, M. Samland, J. Shangguan, T. Schmidt, O. Straub, C. Straubmeier, T. Stolke, A. Vigan, F. Vincent, F. Widmann, J. Woillez and the GRAVITY Collaboration