Tutte le volte che vedo passare la Stazione spaziale internazionale (Iss), così brillante nella notte grazie ai suoi pannelli solari ancora illuminati dal Sole quando sulla Terra è già buio, non posso fare a meno di pensare agli esseri umani, astronauti o cosmonauti, che la abitano.
In effetti, oggi, 2 novembre, la Iss festeggia vent’anni di continua presenza umana. Contando anche i sette turisti spaziali, sono circa 250 gli occupanti che si sono succeduti per periodi più o meno lunghi. Si tratta di un gruppo veramente internazionale con decisa preponderanza degli astronauti americani (oltre 150) seguiti da una cinquantina di cosmonauti russi e da nove giapponesi, otto canadesi, cinque nostri connazionali, quattro francesi, tre tedeschi e poi uno ciascuno per Belgio, Brasile Danimarca, Inghilterra, Kazakistan, Malesia, Olanda, Sud Africa, Corea del Sud, Spagna, Svezia e Emirati Arabi. Diversi sono rimasti stregati dall’esperienza e sono tornati più volte, stando anche per periodi relativamente lunghi nell’avamposto umano nello spazio che è una straordinario esempio di cooperazione internazionale.
La storia della stazione ha origini antiche. Nel 1955 era apparsa di una fortunatissima serie di cartoni animati dove la Disney si era avvalsa della consulenza di Wernher von Braun. Era anche ben presente nella lista dei progetti immaginati dalla giovane Nasa. Pensiamo che, prima di lanciare la sfida verso la Luna, Kennedy e la Nasa avevano considerato la possibilità di costruire una stazione spaziale, eventualità che era stata subito scartata perché all’epoca i sovietici erano decisamente più forti degli americani nella gestione dei loro cosmonauti. Ricordiamo che quando Kennedy parlò al Congresso, nel maggio 1961, nessun americano aveva ancora percorso un’orbita completa intorno alla Terra mentre Yuri Gagarin lo aveva già fatto con enorme successo mediatico.
241 people from around the world have lived and worked on the space station since Nov. 2, 2000. #SpaceStation20th | https://t.co/KCZXYhYfGI pic.twitter.com/yv7pSYbpBN
— International Space Station (@Space_Station) November 1, 2020
L’idea della stazione orbitante tornò in auge alla fine del programma Apollo, quando iniziò il disgelo tra le due superpotenze grazie alla missione congiunta Apollo-Soyuz, il primo esempio di diplomazia spaziale. Poi l’argomento venne nuovamente accantonato perché la Nasa si concentrò sulla costruzione dello Shuttle e fu solo dopo i primi voli della navetta, nel 1981, che si ricominciò a parlare di stazione spaziale. Doveva essere un progetto solo Nasa come Apollo, oppure aprirsi alla collaborazione internazionale, come lo Shuttle? I militari, molti interessati a partecipare, non volevano stranieri tra i piedi ma, con sorpresa di tutti, quando il presidente Reagan annunciò l’intenzione di costruire una stazione spaziale invitò le agenzie che già collaboravano con la Nasa a partecipare al progetto che, per la verità, era ancora molto nebuloso. Per conciliare la partecipazione internazionale con gli interessi commerciali e quelli militari, si cominciò a pensare ad un progetto modulare dove ogni partecipante potesse costruire un pezzo indipendente collegato agli altri con interfacce che si potessero chiudere, se necessario. La politica internazionale aveva iniziato ad influenzare il progetto della stazione spaziale, ma era solo l’inizio.
Tra il 1984 ed il 1993 il progetto delle stazione, che avrebbe dovuto chiamarsi Freedom, venne rivisto sette volte, con notevoli spese e altrettante critiche. Nelle intenzioni di Reagan, Freedom doveva essere avere una funzione antisovietica, ma quando l’Urss si dissolse, questa ragione d’essere venne a mancare. Alla fine, nel 1993, l’amministrazione Clinton cancellò Freedom in favore della International Space Station, un progetto al quale, accanto alle agenzie europea, italiana, giapponese e canadese, si era unito un altro importante partner: la Russia. L’ingresso degli ex-sovietici, con la loro storica base di lancio di Baikonur, fece cambiare l’orbita della Iss che passò dall’avere inclinazione di 28,5 gradi, tipica dei lanci da Cape Canaveral, a quella di 51 gradi, tipica dei lanci da Baikonur. Solo così i potenti e affidabili lanciatori russi avrebbero potuto contribuire al trasporto del materiale e degli astronauti.
Il primo componente della Iss fu Zarya (Alba) che venne portato in orbita da un Proton nel novembre 1998, poi venne il modulo Nasa Unity, nel dicembre 1998, seguito da Zvezda (Stella) nel luglio 2000. È stato questo il rifugio per i tre primi occupanti della Iss, arrivati a bordo di un razzo Soyuz il 2 novembre 2000. Poi la Iss crebbe con una serie di lanci Shuttle che, grazie alla sua grande capacità di carico, portò in orbita tutti i componenti della Stazione, compresi i nodi e la cupola costruiti in Italia. Sappiamo che, purtroppo, ci furono incidenti che causarono perdite umane e ritardi nel programma ma, nel 2011, quando lo Space Shuttle andò in pensione, la Iss era ultimata ed i contatti con la terra erano assicurati dalla Soyuz, per le persone, e dalla Progress, per i rifornimenti. Negli ultimi anni la Nasa ha iniziato a servirsi di lanciatori sviluppati da privati per il trasporto di materiale e, nello scorso maggio, abbiamo assistito al primo lancio di astronauti che hanno usato una capsula privata. “Grazie per aver volato Space X”, è stato il messaggio che ha accolto gli astronauti.
Una lunga storia dove la tecnologia è andata di pari passo con la diplomazia in un progetto che deve molto del suo successo a generazioni di astronauti che hanno lavorato e si sono presi cura della loro casa spaziale che necessita di una continua manutenzione anche perché l’ambiente non è certo amichevole. Una delle preoccupazioni che assilla gli occupanti è il controllo delle perdite d’aria che sono sempre presenti in una struttura complessa con molte giunzioni che devono resistere alla differenza di pressione tra l’interno, dove vivono gli occupanti umani, e il vuoto cosmico. Negli ultimi mesi gli astronauti/cosmonauti hanno passato molto tempo alla ricerca di una piccola falla. Hanno dovuto esaminare uno ad uno i vari componenti per scoprire dove si era aperta una crepa. Capito che si trattava del modulo Zvezda, che è stato uno dei primi ad andare in orbita, non riuscivano proprio a localizzare il forellino. Non è un compito facile: le pareti della stazione sono ricoperte da strumentazione, come capiamo guardando le foto del nuovo libro di Paolo Nespoli, Interior Space, che dà un’idea molto concreta dell’avamposto umano nello spazio con i suoi chilometri di tubi e la varietà di materiale ancorato alla struttura per evitare che fluttui nello spazio. Per arrivare all’involucro bisognerebbe smontare tutto. Dopo avere tentato inutilmente la tecnologia degli ultrasuoni per percepire il fruscio dell’aria che sibila via verso lo spazio, hanno deciso di affidarsi a una bustina di tè. Hanno disperso il contenuto nel modulo e sono usciti chiudendo tutto. Seguendo il movimento delle foglioline con le telecamere hanno individuato la piccola apertura, forse causata da un micrometeorite, e l’hanno prontamente sigillata con il nastro adesivo. Soluzione semplice per un problema spaziale.