Il nuovo studio sulle disfunzioni mitocondriali come causa delle numerose alterazioni fisiologiche, fisiche e sistemiche a cui vanno incontro gli astronauti durante la loro permanenza nello spazio – del quale parliamo oggi su Media Inaf – ha introdotto un concetto chiave per la progettazione delle prossime missioni spaziali di lunga durata, come il ritorno degli astronauti sulla Luna o la prima missione umana su Marte. Media Inaf ha intervistato il primo autore dello studio, Willian Abraham da Silveira, ricercatore in biologia del sistema alimentare presso la Queen’s University Belfast. Oltre a rivestire il ruolo di responsabile del progetto di collaborazione con la Nasa che ha portato alla pubblicazione odierna nella rivista Cell, da Silveira è co-fondatore e attualmente capo della sezione di multi-omica e biologia dei sistemi dello Space Omics Topical Team finanziato dall’Agenzia spaziale europea.
In quanto tempo si sviluppano i sintomi tipici legati alla permanenza nello spazio dopo che gli astronauti lasciano la Terra? In altre parole, si può quantificare il periodo di tempo che un astronauta può trascorrere nello spazio prima di avere conseguenze sulla salute?
«Alcuni dei sintomi si sviluppano quasi istantaneamente una volta nello spazio. La microgravità provoca uno spostamento dei fluidi corporei nella parte superiore del corpo ed è normale che gli astronauti nei loro primi giorni nello spazio siano un po’ disorientati e sviluppino la cosiddetta sindrome da “faccia paffuta e gambe da uccellino”. È anche normale che l’astronauta abbia problemi a dormire – tratto, questo, comune ai pazienti terrestri con disfunzioni mitocondriali. La microgravità può causare anche atrofia muscolare e perdita di densità ossea, motivo per cui gli astronauti si esercitano per almeno due ore ogni giorno alla Stazione spaziale internazionale – per cercare di ridurre al minimo gli effetti».
Oltre a questi sintomi fisici transitori, ne esistono di permanenti?
«Anche se alcuni effetti possono verificarsi quasi immediatamente, e alcuni – come gli effetti della disfunzione mitocondriale – ci preoccupano per la possibilità di sviluppo a lungo termine, tutti i parametri che abbiamo valutato sono tornati alla normalità una volta che gli astronauti sono tornati sulla Terra. Nell’ambito del progetto Nasa Twin Study, Scoot Kelly, il gemello che ha passato un anno nello spazio, è tornato abbastanza sano e si è riadattato alla vita sulla terra senza problemi».
Cosa sono le disfunzioni mitocondriali di cui parlate nel vostro studio?
«Le disfunzioni mitocondriali sono caratterizzate da una perdita di efficienza nella produzione di energia della cellula e dalle alterazioni metaboliche ad essa associate. Possono essere di tipo primario, nel senso che la persona è nata con mutazioni “difettose” legate ai mitocondri, o secondarie, nel senso che il malfunzionamento dei mitocondri è stato causato da determinati fattori ambientali. Per quel che riguarda gli astronauti, nel nostro articolo evidenziamo una nuova forma di disfunzione mitocondriale secondaria il cui fattore scatenante è l’ambiente spaziale».
Come si sviluppano queste patologie con il passare del tempo?
«È davvero difficile prevedere, in questo momento, come questo tipo di patologia si sviluppa nello spazio. Sulla Terra, esse si presentano in forme fra loro abbastanza diverse: possono interessare diversi organi apparentemente non correlati – come il cervello, il fegato, il pancreas e il sistema uditivo – oppure colpire un solo organo. L’unica cosa che tutte le disfunzioni mitocondriali hanno in comune è che sono progressive, quindi gli effetti si accumulano con il passare del tempo, ed è su questo che ci stiamo concentrando. In un viaggio di andata e ritorno su Marte, che durerebbe quasi due anni, è assolutamente necessario prendere in considerazione gli effetti a lungo termine».
Ci sono casi reali che hanno guidato le analisi condotte nel vostro studio?
«Anche se non abbiamo avuto accesso ai tessuti cerebrali e cardiaci, nel nostro studio discutiamo le potenziali implicazioni per entrambi gli organi. L’anno scorso abbiamo avuto il primo caso di trombosi da parte di un astronauta sulla Iss, e anche se tutto è stato risolto velocemente e non ci sono state gravi conseguenze, è importante sottolineare che la piastrina – il frammento cellulare responsabile della coagulazione del sangue e della formazione di coaguli – è altamente dipendente dalla funzione mitocondriale. Anche l’aumento di grassi e colesterolo nel sangue è un fattore di rischio da monitorare in una missione a lungo termine. Anche le malattie neurodegenerative come il morbo di Alzheimer e il Parkinson hanno una componente mitocondriale, e non vogliamo che gli astronauti in missioni a lungo termine siano a rischio di sviluppare problemi neurologici. Questi sono gli aspetti principali sui quali ci siamo concentrati finora. Ma, come dicevo, è troppo presto per sapere quanto è grande il rischio e quanto tempo occorre affinché si manifesti».
Queste disfunzioni sistemiche sono più legate alla permanenza in ambiente microgravitazionale o ad altri fattori come l’esposizione prolungata ai raggi cosmici?
«Probabilmente entrambi. Le radiazioni spaziali, anche a bassi livelli, hanno il potenziale di causare danni mitocondriali e di aumentare i radicali liberi dell’ossigeno – che da soli possono causare stress mitocondriale. D’altro canto, l’esperimento sulla microgravità ha dimostrato che il coefficiente di diffusione è leggermente inferiore nello spazio rispetto alla Terra, poiché la produzione di energia da parte dei mitocondri dipende dal flusso di ioni di idrogeno attraverso gli stessi, e la microgravità ha il potere di alterarla. Quindi, entrambe le condizioni – raggi cosmici e microgravità – possono costituire un fattore di rischio importante ed è probabile che i risultati che osserviamo siano la combinazione di entrambi».
Ci sono altri studi che avevano ipotizzato ai mitocondri come causa delle patologie spaziali prima d’ora?
«Alcuni l’hanno fatto, sì. Nel nostro lavoro ne citiamo due. Il professor Takeshi Nikawa dell’Università di Tokushima, che ha identificato nel 2004, fra le cause dell’atrofia muscolare nello spazio, una componente mitocondriale che non era presente nei modelli terrestri. E il Dr. Klimchuk dell’Accademia nazionale delle scienze dell’Ucraina, che nel 2007 ha descritto l’alterazione mitocondriale sulla struttura e la funzionalità delle radici della soia, dimostrando che la disfunzione mitocondriale non riguarda solo i mammiferi. E ce ne sono stati anche altri».
Qual è l’elemento che contraddistingue il vostro lavoro, quindi?
«Nessuno aveva l’enorme quantità di dati e l’eterogeneità di cellule e tessuti che abbiamo a disposizione noi. O ancora dati provenienti direttamente dal sangue degli astronauti e dallo studio dei gemelli della Nasa. Inoltre, nessuno di loro poteva valutare l’intera implicazione della loro scoperta senza un contesto come il nostro. Su questo siamo stati fortunati. La nostra analisi è stata possibile solo grazie al progetto Genelab della Nasa, un database con dati “omici” provenienti dallo spazio e disponibili alla comunità scientifica».
Per saperne di più:
- Leggi su Media Inaf l’articolo “Mitocondri, tallone d’Achille degli astronauti”
- Leggi su Cell l’articolo “Comprehensive Multi-omics Analysis Reveals Mitochondrial Stress as a Central Biological Hub for Spaceflight Impact”, di Willian A. da Silveira, Hossein Fazelinia, Sara Brin Rosenthal, Evagelia C. Laiakis, Man S. Kim, Cem Meydan, Yared Kidane, Komal S. Rathi, Scott M. Smith, Benjamin Stear, Yue Ying, Yuanchao Zhang, Jonathan Foox, Susana Zanello, Brian Crucian, Dong Wang, Adrienne Nugent, Helio A. Costa, Sara R. Zwart, Sonja Schrepfer, R.A. Leo Elworth, Nicolae Sapoval, Todd Treangen, Matthew MacKay, Nandan S. Gokhale, Stacy M. Horner, Larry N. Singh, Douglas C. Wallace, Jeffrey S. Willey, Jonathan C. Schisler, Robert Meller, J. Tyson McDonald, Kathleen M. Fisch, Gary Hardiman, Deanne Taylor, Christopher E. Mason, Sylvain V. Costes e Afshin Beheshti