È difficile immaginarlo oggi. Con gli immensi archivi di dati astronomici a disposizione dei ricercatori e cataloghi come quello rilasciato ieri dal satellite Gaia, che contiene la posizione in 3D di quasi due miliardi di stelle ad altissima precisione, siamo più che mai consapevoli della nostra ubicazione nel contesto cosmico. Ma solo duecento anni fa la distanza dalle stelle era ancora un mistero, e ideare metodi per tentare di misurarla era un rompicapo che teneva occupati alcuni tra gli astronomi più rinomati dell’epoca.
L’idea era di utilizzare la parallasse, il fenomeno per cui vediamo un corpo lontano spostarsi – in apparenza – rispetto a oggetti ancora più lontani mentre in realtà siamo noi, gli osservatori, a spostarci. Quanto più grande lo spostamento apparente, tanto più vicino il corpo di cui cerchiamo di stimare la distanza. Ma poiché le stelle – e questo già si sapeva nell’Ottocento – sono molto lontane, questi spostamenti nel cielo sono minuscoli anche volendo muoversi sul tragitto più grande a nostra disposizione – l’orbita della Terra intorno al Sole – e per misurarli bisogna ricorrere a strumenti altamente sofisticati.
Dopo alterne vicende, l’arcano si risolse tra il 1832 e il 1840 per mano dei tedeschi Friedrich Wilhelm Bessel e Friedrich Georg Wilhelm von Struve e dello scozzese Thomas Henderson, che in quegli anni riuscirono finalmente a misurare la parallasse – e dunque la distanza – di tre stelle: rispettivamente 61 Cygni, Vega e Alfa Centauri. Queste osservazioni di stelle tra le più vicine a noi (si trovano infatti tra 4 e 26 anni luce dal Sole) hanno spalancato la porta alla moderna astrometria, il campo dell’astronomia che si occupa di misurare posizioni, distanze e moti dei corpi celesti nel cosmo. Il primato sulla scoperta, generalmente attribuito a Bessel e al suo articolo apparso nel 1838 sulla rivista tedesca Astronomische Nachrichten (tradotta poi in inglese da John Herschel su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society), è però rimasto a lungo oggetto di intensi dibattiti accademici, e altrettanto lo è stata la bontà di quelle prime misure e soprattutto delle relative barre d’errore.
E così Mark Reid, radioastronomo presso l’Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics, negli Stati Uniti, e Karl Menten, direttore esecutivo del Max Planck Institute for Radio Astronomy di Bonn, in Germania, hanno deciso di rivisitare i dati storici con gli occhi del ventunesimo secolo, pubblicando i loro risultati proprio su Astronomische Nachrichten in omaggio all’articolo originale. Entrambi coinvolti nel progetto Bessel (Bar and Spiral Structure Legacy Survey) che fa eco al famoso astronomo e matematico poiché utilizza proprio il metodo della parallasse, mediante osservazioni radio effettuate con il Very Long Baseline Array, per costruire una mappa della struttura a spirale della Via Lattea, i due ricercatori hanno analizzato le osservazioni ottocentesche con tecniche moderne, confermando che tutte e tre le misure erano effettivamente significative e chiarificando alcune incongruenze tra i dati antichi e quelli più recenti che erano rimaste finora nebulose.
Per ottenere la parallasse di 61 Cygni, Bessel aveva combinato tra loro oltre cento osservazioni effettuate utilizzando un eliometro (uno strumento costituito da due metà scorrevoli della stessa lente, ideato originariamente per misurare il diametro del Sole ma ideale per registrare posizioni relative, e dunque per le misure di parallasse) costruito per l’occasione da Joseph von Fraunhofer. Il nuovo studio approfondisce l’impatto della variazione di temperatura sulle misure dell’epoca, che erano state realizzate nell’arco di un anno e quindi in condizioni meteorologiche molto diverse, come già notato dallo stesso Bessel in pubblicazioni successive e da Herschel nella traduzione in inglese. Secondo Reid e Menten, questo effetto risulta essere ancor più significativo di quanto stimato allora da Bessel, ma tenendone conto è possibile riconciliare la misura originale con la parallasse di questa stella – in realtà un sistema binario – nota oggi ad altissima precisione grazie a Gaia.
«Mettersi sulle spalle di Bessel è stata un’esperienza straordinaria e divertente», commenta Reid.
L’analisi moderna riesce a riprodurre piuttosto bene anche i risultati di von Struve e Henderson, ma nota che entrambi hanno utilizzato delle stime piuttosto ottimistiche per quanto riguarda le incertezze relative alle loro misure, facendo apparire i loro valori un po’ più robusti di quanto non fossero davvero. Nel caso di von Struve, in particolare, Reid e Menten suppongono che possa esser stato sottovalutato l’effetto della temperatura sulle misure, il che potrebbe spiegare il mistero che circonda la misura della parallasse di Vega, una stima preliminare – praticamente identica al valore attuale – pubblicata nel 1837 nella monografia Stellarum duplicium et multiplicium mensurae micrometricae. Per calcolarla, l’astronomo aveva utilizzato tutte le osservazioni a sua disposizione, ma non deve esserne stato troppo convinto, perché due anni dopo la ritirò per pubblicarne una seconda, basata su più osservazioni ma meno prossima al valore corretto. Chissà, se non l’avesse fatto avrebbe forse riscosso maggior credito.
«Considerare quest’opera in un contesto sia astronomico che storico è stato davvero affascinante», conclude Menten.
Per saperne di più:
- Leggi su Astronomische Nachrichten l’articolo “The first stellar parallaxes revisited” di Mark J. Reid e Karl M. Menten