Il ferro è uno di quegli elementi della tavola periodica di cui abbiamo esperienza continua e antichissima. Un meccanico ne possiede in quantità per gli strumenti e gli utilizzi più disparati, uno storico lo collegherà a una precisa e fondamentale epoca nella storia dell’umanità, un medico indicherà un parametro del sangue, un nutrizionista un elemento essenziale per la salute e un astronomo – probabilmente – penserà a una stella massiccia o a una supernova. Sono proprio quest’ultime le fabbriche universali e primordiali del ferro, i luoghi naturali in cui avvengono i processi in grado di sintetizzarlo. È così che viene forgiato il primo anello della lunga catena di conoscenze e tecniche impiegate dalle discipline menzionate in precedenza.
Studi di evoluzione stellare confermano e accrescono da decenni la consapevolezza che il ferro sia prerogativa delle stelle più massicce, oppure di una classe particolare di supernove che ha origine dai sistemi binari di stelle di massa intermedia che si fondono assieme – le supernovae di tipo Ia. Proprio a causa di uno strano meccanismo a catena innescato dalla produzione del ferro – per il quale la stella necessita un contributo energetico esterno, invece di produrlo come durante la sintesi di qualunque altro elemento più leggero, dal carbonio all’ossigeno e fino all’elio – una stella non riesce più a vincere la pressione del suo stesso peso e continuare nella sintesi di elementi via via più pesanti e – dopo questo ultimo, pesante sforzo – termina la propria vita stabile nella sequenza principale. La sintesi di elementi ancora più pesanti – cioè con numero atomico superiore al ferro – ma altrettanto fondamentali per la vita, come il magnesio, è dunque delegata ad altre sedi: una seconda classe di supernove, ad esempio, quelle prodotte proprio dall’esplosione di una stella massiccia.
Nonostante le teorie di evoluzione stellare su questo siano abbastanza concordi, i dettagli precisi sull’origine del ferro e degli altri elementi chimici pesanti – e, con essa, l’epoca cosmica nel quale furono maggiormente prodotti – rimangono elusivi, e la loro indagine è intimamente legata all’origine di quelle stelle che per prime hanno cominciato a illuminare l’universo, alcune centinaia di milioni di anni dopo il Big Bang.
Per fare luce sul problema, molti ricercatori hanno studiato l’evoluzione chimica dell’universo utilizzando quasar lontani. Questo perché la storia associata alla formazione e all’evoluzione delle stelle massicce è destinata a guidare l’evoluzione chimica, oltre a far circolare materiale gassoso e a fornire energia termica e cinetica all’universo primitivo.
Gli elementi pesanti come il ferro o i cosiddetti alpha elements – come il magnesio – nelle cosiddette Broad line region (Blr) dei quasar sono prodotti dall’esplosione di supernove generate delle stelle abitanti la galassia ospite.
Grazie a Winered – lo spettrografo Echelle montato al telescopio di 3.58m di diametro New Technology Telescope (Nnt) dell’Eso, in Cile, con una elevata sensibilità nel vicino infrarosso – un gruppo di ricercatori guidati da Hiroaki Sameshima dell’istituto di astronomia dell’università di Tokyo ha condotto una campagna osservativa volta a studiare gli elementi pesanti nei quasar luminosi nell’universo primitivo, antichi nuclei galattici ferocemente energetici che emettevano luce quando l’universo aveva solo 2.4 miliardi di anni.
La progettazione e realizzazione di questo nuovo spettrografo, sottolineano gli autori, è stata fondamentale per lo studio. A causa della strumentazione limitata infatti, tutte le precedenti osservazioni volte a indagare l’origine dei metalli hanno riguardato principalmente stelle vecchie e vicine – limitando il punto di vista e i risultati alla nostra galassia.
«Montando lo strumento Winered su un grande telescopio, possiamo vedere più indietro nel tempo e possiamo osservare corpi più lontani, o più antichi, rispetto a quelli considerati negli studi precedenti. Ora possiamo vedere dettagli di quasar vecchi più di 10 miliardi di anni», spiega Sameshima. «Winered è un tipo speciale di spettrografo, può identificare le impronte chimiche presenti nella luce emessa da corpi lontani. Ci ha rivelato infatti le impronte digitali di ferro e magnesio nella luce di questi quasar, e questo ci ha permesso di calcolare l’abbondanza di questi elementi quando l’universo era molto più giovane dell’età alla quale si erano potuti spingere gli studi precedenti».
Combinando gli spettri ottenuti di Winered con gli spettri ottici della survey Sdss, Sameshima e collaboratori hanno misurato le righe di emissione di magnesio e ferro, trovando che il loro rapporto non evolve rispetto ai dati ottenuti a redshift più bassi da altri studi, e trovandosi in accordo con i modelli di evoluzione chimica dell’universo. Questo risultato non solo conferma quanto atteso dalla teoria, ma funge da validazione di alcune assunzioni e correzioni statistiche di cui lo studio si è avvalso per sopperire, ad esempio, ai limiti circa il campione osservato.
Una esaustiva comprensione della chimica dell’universo e della genesi degli oggetti pesanti – ad esempio, quanto del ferro che abbiamo nelle nostre vene proviene dall’inizio della storia del cosmo e quanto invece è stato prodotto vicino a noi? – dovrà passare attraverso l’aumento della statistica osservativa dei quasar lontani, e considerare anche quelli meno luminosi. Questo ulteriore passo sarà possibile utilizzando grandi telescopi, tra cui Tao, il prossimo da 6.5 m ottimizzato per l’infrarosso costruito in Cile dal progetto Tokyo Atacama Observatory.
Per saperne di più:
- Leggi il preprint dell’articolo in uscita su The Astrophysical Journal “Mg II and Fe II fluxes of luminous quasars at z ~ 2.7 and evaluation of the Baldwin effect in the flux-to-abundance conversion method for quasars”, di Hiroaki Sameshima, Yuzuru Yoshii, Noriyuki Matsunaga, Naoto Kobayashi, Yuji Ikeda, Sohei Kondo, Satoshi Hamano, Misaki Mizumoto, Akira Arai, Chikako Yasui, Kei Fukue, Hideyo Kawakita, Shogo Otsubo, Giuseppe Bono e Ivo Saviane