“Get into the groove”, esortava Madonna nella colonna sonora di Cercasi Susan disperatamente. Detto fatto. Un team guidato da Alice Lucchetti, ricercatrice all’Inaf di Padova, si è virtualmente calato nelle grooves – le faglie – del satellite mediceo Ganimede, che con i suoi 5262 km di diametro è la luna più grande di tutto il Sistema solare, in cerca d’informazioni sull’oceano liquido presente là sotto la spessa crosta ghiacciata. Ed è così riuscito a stimare lo spessore di questa crosta – e dunque la profondità alla quale si trova l’oceano sotterraneo – per le quattro regioni analizzate nello studio: da 105 a 130 km.
Lo studio, pubblicato oggi su Planetary and Space Science, è stato condotto da un gruppo multidisciplinare tutto italiano – ne fanno parte, oltre agli astrofisici dell’Inaf, anche ricercatori dell’Infn, dell’Ingv e dell’Università di Padova – sulle “carte topografiche” di Ganimede messe a punto grazie alle immagini acquisite dalle sonde della Nasa Galileo, Voyager 1 e Voyager 2. Immagini nelle quali si nota la presenza di due terreni differenti: i terreni più chiari, chiamati bright, e quelli più scuri, chiamati dark. Rispetto ai “vecchi” terreni dark, quelli bright sono geologicamente più recenti, la densità di crateri è minore e in superficie sono solcati, appunto, da queste faglie chiamate grooves: strutture morfotettoniche che rappresentano la deformazione fragile della crosta ghiacciata di Ganimede, e quindi l’evidenza dell’attività tettonica che ha deformato il satellite durante la sua evoluzione.
«Queste spaccature nella crosta ghiacciata giocano un ruolo importante nella possibile connessione tra materiale superficiale e l’oceano liquido presente in profondità», spiega Lucchetti a Media Inaf. «Per ottenere informazioni riguardo lo spessore crostale che si trova sopra l’oceano liquido abbiamo analizzato le grooves presenti in quattro regioni equatoriali di Ganimede: Uruk Sulcus, Babylon Sulci, Phrygia Sulcus e Mysia Sulci – contenenti rispettivamente 1068, 882, 678 e 987 grooves. La stima della lunghezza di queste grooves ci ha permesso di ottenere informazioni riguardo la loro propagazione ed evoluzione nella crosta ghiacciata. In particolare, abbiamo osservato che le fratture seguono un andamento differente a seconda della loro lunghezza, suggerendo la presenza di due popolazioni di grooves diverse: quelle più corte (meno di 150-200 km) sono confinate in uno spessore crostale più superficiale, mentre quelle più lunghe (oltre i 200 km) sono quelle che teoricamente penetrano più in profondità la crosta ghiacciata, raggiungendo l’interfaccia crosta-oceano liquido».
Successivamente, attraverso un’analisi statistica, è stato possibile ottenere informazioni quantitative riguardo la massima profondità alla quale queste fratture si propagano nella crosta ghiacciata. Studiando la loro distribuzione spaziale superficiale è infatti possibile stimare la profondità massima alla quale l’interconnessione tra le fratture si ferma, suggerendo dunque la presenza di uno strato meccanico differente dalla crosta ghiacciata attorno, appunto ai 105-130 km sotto il livello del suolo.
«È un metodo comunemente usato qui sul nostro pianeta per ottenere stime dello spessore della crosta terrestre», prosegue Lucchetti, «un approccio geologico-strutturale che, applicato a Ganimede, ci ha permesso di ottenere nuovi risultati riguardo la profondità alla quale le grooves penetrano e riguardo la differente stratificazione reologica/meccanica della sua crosta. Ed è una tecnica che può essere utilizzata anche su tutti gli altri corpi che presentano un oceano liquido al loro interno. Inoltre, grazie alla nostra analisi possiamo suggerire che le fratture che raggiungono l’oceano liquido sono quelle che geograficamente si trovano lungo le zone di confine tra i terreni dark e bright. Zone dunque che costituiranno obiettivi importanti per l’esplorazione futura di Ganimede».
Esplorazione futura, sì, ma del futuro prossimo: il lancio di Juice, la missione dell’Esa che studierà le lune ghiacciate di Giove, è infatti in calendario per il 2022. E la telecamera di bordo alla quale spetterà acquisire le immagini ad alta risoluzione, Janus, è uno strumento made in Italy – fornito dall’Agenzia spaziale italiana e realizzato sotto la guida dell’Università “Parthenope” di Napoli. «Janus ci permetterà di avere una copertura globale di Ganimede, con immagini aventi una risoluzione di 100-150 metri per pixel», spiega Maurizio Pajola dell’Inaf di Padova, coautore dello studio pubblicato su Planetary and Space Science. «I dati che ci fornirà renderanno possibile studiare in maggiore dettaglio le grooves di Ganimede per rispondere ai numerosi quesiti che ancora caratterizzano questo satellite».
Per saperne di più:
- Leggi su Planetary and Space Science l’articolo “Equatorial grooves distribution on Ganymede: Length and self-similar clustering analysis”, di A. Lucchetti, C. Rossi, F. Mazzarini, M. Pajola, R. Pozzobon, M. Massironi e G. Cremonese