Il numero di oggi della rivista Science racconta una storia. Non una storia qualunque, bensì la storia del nostro Sistema solare – ricostruita in gran dettaglio da un gruppo di ricercatori grazie a una nuova, inedita teoria.
Semplificare il problema suddividendolo in parti più piccole è la chiave e l’elemento di diversità sostanziale di questa storia, grazie alla quale i ricercatori hanno centrato l’obiettivo: ricostruire il processo evolutivo del Sistema solare partendo dalla fine, ovvero dai dati osservati oggi, quando l’evoluzione può dirsi conclusa e ci troviamo in condizioni di stabilità.
Nel prologo troviamo le evidenze scientifiche e osservative raccolte negli anni. Guardandoci intorno, vediamo un Sistema planetario vecchio circa quattro miliardi e mezzo di anni e la sua corte planetaria: non possiamo non notare che essa è facilmente divisibile in due famiglie. Da una parte, vicino alla nostra stella, troviamo pianeti rocciosi, relativamente aridi e di dimensioni piuttosto contenute. Dall’altra, più lontani e separati dai primi tramite una fascia asteroidale, i pianeti giganti, con un elevato contenuto di elementi volatili e perciò molto meno densi. Fra gli obiettivi, comprendere perché si siano formate queste due famiglie, come sia avvenuto il processo e come sia possibile legarlo ai dati raccolti in decenni di osservazioni da Terra e dallo spazio. Leggendo un po’ più nel dettaglio, scopriamo che le evidenze osservative considerate dagli autori dello studio sono i recenti studi di geochimica – o meteoritica – focalizzati sull’analisi del contenuto isotopico, di ferro e acqua delle meteoriti, e osservazioni e simulazioni astrofisiche riguardanti sistemi solari esterni in formazione.
La storia – in termini scientifici, il processo di formazione – comincia dalla nebulosa solare, il disco di gas e pulviscolo solido che circondava il Sole appena nato circa 4.5 miliardi di anni fa. Nella parte più interna vi sono i piccoli mattoncini che formeranno, nel tempo, i pianeti interni (o terrestri): si tratta dei cosiddetti planetesimi, formati da piccole rocce – dette pebbles – che collidono fra loro, si fondono e degassano a causa delle elevate temperature. L’unione fra la ricostruzione del processo di formazione dei planetesimi e le osservazioni circa la diversa composizione chimica nel Sistema solare interno ed esterno ha portato gli autori all’intuizione chiave di questo lavoro: i pianeti del Sistema solare si sono formati in due episodi distinti. Il primo di questi è cominciato quando il Sole era ancora in formazione, e vedeva i pianeti terrestri interni che iniziavano già ad accrescere materiale. Il secondo episodio invece è cominciato circa mezzo milione di anni dopo, e riguarda l’assemblaggio dei pianeti esterni.
I capitoli successivi, a questo punto, si susseguono naturalmente: a causa di questo ritardo rispetto ai corpi interni, i pianeti esterni ereditarono una frazione molto inferiore di elementi radioattivi. Il decadimento radioattivo causa un riscaldamento importante nei pianeti interni – che vanno incontro a processi di fusione, formano nuclei di ferro e perdono velocemente molti elementi volatili primitivi, come l’acqua. Un primo risultato, evidente alle osservazioni, di questo processo è che i pianeti terrestri interni oggi sono relativamente aridi – con un contenuto di acqua relativamente basso rispetto alla loro massa totale – mentre quelli esterni sono ricchi di elementi volatili.
Il Sistema solare interno, formatosi precocemente e relativamente asciutto, e il Sistema solare esterno, formatosi successivamente e molto più umido, hanno quindi necessariamente seguito due diversi percorsi evolutivi sin dall’inizio della loro storia.
«I diversi intervalli di tempo di formazione di queste popolazioni planetarie fanno sì che il loro motore termico interno generato dal decadimento radioattivo differisca sostanzialmente», spiega Tim Lichtenberg, ricercatore al Dipartimento di fisica atmosferica, oceanica e planetaria dell’Università di Oxford e primo autore dello studio. «I planetesimi del Sistema solare interno sono diventati molto caldi, hanno sviluppato oceani magmatici interni, hanno formato rapidamente nuclei di ferro e hanno degassato il loro contenuto volatile iniziale – un processo che alla fine li ha resi aridi. Al contrario, i planetesimi del Sistema solare esterno che si sono formati in seguito hanno sperimentato un riscaldamento interno decisamente inferiore che ha limitato sia la formazione di nuclei di ferro sia il rilascio di elementi volatili».
Gli autori hanno condotto una serie di simulazioni al computer che ha confermato come la formazione del Sistema solare possa essere ricostruita mediante questo processo a due fasi: i pianeti interni hanno cominciato a formarsi prima ma hanno avuto un accrescimento molto lento, mentre i pianeti esterni, che hanno cominciato a formarsi più tardi, hanno avuto un accrescimento molto più rapido. Il diverso tasso di accrescimento, spiegano gli autori, è dovuto al movimento della cosiddetta snowline – una linea immaginaria nel disco di accrescimento che segna il confine fra la regione nella quale il ghiaccio d’acqua è stabilmente solido, e quella in cui si trova in fase gassosa.
La sequenza temporale di formazione e l’evoluzione geofisica interna spiegano dunque la sproporzione fra Sistema solare interno ed esterno in termini di contenuto d’acqua e sono anche in grado di riprodurre la cronologia di formazione registrata oggi nei meteoriti: in particolare, riproduce il tempo di clustering necessario alla formazione del nucleo di ferro e le reazioni acqua-roccia che si osservano nelle meteoriti, nonché la differenza di composizione isotopica del materiale proveniente dalle due regioni del Sistema solare.
Inoltre, in questo nuovo scenario di formazione, i pianeti terrestri sono aridi non solo a causa del loro tempo di formazione (o accrescimento) e del posizionamento della snowline, ma anche per via del corredo di isotopi radioattivi che hanno incorporato dai loro primi elementi costitutivi. Un ruolo chiave viene assunto, secondo gli esperti, dall’isotopo radioattivo alluminio-26 (26Al), che ha un tempo di decadimento molto breve e avrebbe, pertanto, riscaldato il materiale costituente i planetesimi su tempi scala paragonabili ai tempi scala di accrescimento dei corpi stessi. Questa è una profonda differenza rispetto allo scenario classico da sempre proposto per la formazione del Sistema solare, in cui i materiali costituenti danno il via alla formazione dei pianeti nello stesso momento lungo tutta l’estensione del disco protoplanetario. In questo caso, la differenza nel contenuto d’acqua ed elementi volatili viene spiegata ipotizzando un posizionamento statico della snowline. Nel nuovo studio invece, il movimento della snowline – consistente con i modelli astrofisici – è fondamentale per innescare la formazione dei planetesimi in tempi e luoghi diversi.
Concludiamo con il confronto con i sistemi planetari esterni – che Lichtenberg e colleghi spiegano in un ragionamento piuttosto lineare. Siccome la presenza di elementi volatili sulla Terra è il risultato di una specifica cronologia nel suo percorso di accrescimento, è normale attendersi che pianeti extrasolari di tipo terrestre mostrino differenze atmosferiche e climatiche sostanziali rispetto a essa. Per esempio, se consideriamo che la Terra è arida per via della presenza di 26Al nel Sistema solare primitivo, va da sé che altri sistemi protoplanetari esterni – che nascono in una nube con un corredo isotopico completamente diverso – presentino caratteristiche dissimili. L’evoluzione geofisica dei pianeti extrasolari segue un percorso dettato innanzitutto dalle caratteristiche del suo ambiente di formazione, potendo formare quindi combinazioni – per noi – esotiche in termini di composizione e clima.
«Questo apre nuove strade per comprendere le origini delle atmosfere primitive dei pianeti simili alla Terra e la posizione del Sistema solare nel contesto del censimento esoplanetario in corso nella nostra galassia», conclude Lichtenberg.
Per saperne di più:
- Leggi su Science l’articolo “Bifurcation of planetary building blocks during Solar System formation”, di Tim Lichtenberg, Joanna Drazkowska, Maria Schönbächler, Gregor J. Golabek e Thomas O. Hands