Se a cavallo tra febbraio e marzo del 2016 un ignaro visitatore avesse mai varcato la soglia dell’area sperimentale Elfie, all’interno del laboratorio Luli dell’École polytechnique di Parigi, si sarebbe trovato davanti a una scena singolare: un gruppo di ricercatori intenti a bombardare con impulsi laser di potenza devastante un minuscolo frammento di plastica, portandolo a temperature attorno ai tre milioni di gradi. Obiettivo: ricreare in laboratorio getti di plasma analoghi – seppur su scala enormemente più piccola – a quelli espulsi a velocità supersonica dalle giovani stelle in formazione. L’analisi dei dati raccolti durante quei test ha prodotto, negli anni successivi, numerosi risultati scientifici, gli ultimi dei quali pubblicati ieri su Nature Communications.
«Solitamente noi astrofisici, a differenza di altri scienziati in altri campi di ricerca, non abbiamo la possibilità di toccare con mano l’oggetto del nostro studio», dice a Media Inaf una delle coautrici dell’articolo, Rosaria Bonito dell’Inaf di Palermo. «Questo tipo di approccio interdisciplinare, che combina osservazioni astronomiche di oggetti stellari, simulazioni numeriche ed esperimenti laser, ci ha invece permesso di riprodurre in laboratorio il nostro oggetto di studio: un getto di plasma in un campo magnetico. Per esempio volevamo capire cosa succede quando il campo magnetico è orientato con angoli diversi rispetto al getto proveniente da una stella in formazione. L’indagine condotta al Luli ci ha permesso di verificare che l’origine della morfologia “a nodi” osservata nei getti stellari può trovare una spiegazione proprio nell’inclinazione del campo magnetico rispetto alla direzione di propagazione del getto».
I getti di plasma astrofisici possono essere emessi dalle sorgenti più varie: da giovani stelle, appunto, ma anche dalla superficie del Sole, o su scala assai più grande dai nuclei galattici attivi. Quelli riprodotti nel laboratorio parigino sono getti in miniatura – pochi millimetri di lunghezza e una manciata di nanosecondi di durata, rispetto ai mesi e alle centinaia di milioni di chilometri d’un getto di plasma stellare – ma sufficientemente caldi e densi da fornire un modello adeguato a indagare i processi in atto attorno alle stelle. Per poter dunque verificare se la morfologia “a nodi” alla quale fa riferimento Bonito – una sorta di irregolarità nel plasma dei getti che ricorda l’alternarsi di linee e punti di una stringa in codice Morse, suggerisce un’altra delle coautrici dello studio, Sofia Chen – potesse essere dovuta al disallineamento fra la direzione del getto e quella del campo magnetico, era necessario creare un campo magnetico con l’inclinazione voluta. E al suo interno produrre un getto.
È qui che entra in gioco la scelta della plastica. Studiare un plasma equivale a studiare una fiamma: in teoria, poco importa da cos’è alimentata – se da un frammento di metallo o, appunto, di plastica. Ma in questo caso la “fiamma” doveva essere avvolta in un campo magnetico, e anche piuttosto intenso: attorno a 20 tesla, dunque circa duemila volte più forte di quello d’una classica calamita da frigorifero. Se nel mirino del laser si fosse posto un frammento di metallo si sarebbero quindi indotte intense correnti elettriche, effetto che i ricercatori volevano evitare.
«Con la plastica questo problema non si pone. Non solo: avendo usato come materiale il Teflon, è stato possibile sfruttare l’emissione X degli atomi di fluoro ionizzati per ottenere informazioni sulla temperatura del plasma», spiega a Media Inaf il primo autore dell’articolo, Guilhem Revet, ricercatore del laboratorio parigino e dell’Istituto di fisica applicata dell’Accademia russa delle scienze. «Ma se non avessimo avuto altro, sarebbe andato bene anche un normale mattoncino di Lego, in fondo non sono materiali così diversi, sempre di plastica si tratta: una catena formata principalmente da atomi di carbonio, qualche atomo d’idrogeno ed eventualmente un po’ di atomi più pesanti».
Più che il materiale, l’aspetto importante era appunto il disallineamento fra campo magnetico e getto. Ciò che i dati hanno mostrato è che, in effetti, si tratta di una configurazione che perturba la forma altrimenti regolare del getto di plasma collimato che attraversa le linee del campo magnetico. Se poi il disallineamento è notevole, il getto arriva quasi a subire interruzioni, come appunto le “stringhe di codice Morse” osservate in alcuni getti di origine astrofisica.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Communications l’articolo “Laboratory disruption of scaled astrophysical outflows by a misaligned magnetic field”, di G. Revet, B. Khiar, E. Filippov, C. Argiroffi, J. Béard, R. Bonito, M. Cerchez, S. N. Chen, T. Gangolf, D. P. Higginson, A. Mignone, B. Olmi, M. Ouillé, S. N. Ryazantsev, I. Yu. Skobelev, M. I. Safronova, M. Starodubtsev, T. Vinci, O. Willi, S. Pikuz, S. Orlando, A. Ciardi e J. Fuchs