Le missioni spaziali sono progetti definitivamente di lungo termine. Passano molti anni dal concetto alla realizzazione, e se una parte del lavoro culmina quando finalmente sopraggiunge il lancio, un’altra sta solo per iniziare. Nel caso di sonde che esplorano il Sistema solare, il lancio rappresenta un altro inizio, con un lungo viaggio da affrontare nello spazio profondo, e nuovi ostacoli. Per un rover marziano come Perseverance della missione Nasa Mars 2020, lanciata il 30 luglio 2020, il momento della verità arriva questa sera, ore 21:55 italiane, con l’atterraggio sul Pianeta rosso. Si tratta di una procedura tanto rapida – i famosi “sette minuti di terrore” – quanto complessa (per un riepilogo delle operazioni, ricordiamo questo video) attraverso cui una combinazione di fattori che include l’attrito atmosferico, un paracadute supersonico, un inedito sistema di riconoscimento delle caratteristiche del suolo e otto retrorazzi della gru Skycrane permetterà al veicolo di posarsi delicatamente sul suolo di Marte.
E con il rover saldamente sulla superficie, arriva finalmente il momento per un nuovo inizio, quello che ricercatori e ricercatrici attendono con trepidazione: l’inizio della fase scientifica. Nel caso di Perseverance, questa fase consiste nella ricerca di possibili tracce di forme di vita su Marte. Un esercizio collettivo di attesa, collaborazione, e tanta perseveranza. Ne parliamo con Teresa Fornaro, ricercatrice all’Inaf di Firenze e unica italiana tra i 13 participating scientist della missione, che questa sera sarà ospite dello speciale di RaiNews24 per commentare in diretta le immagini provenienti dalle sale di controllo della Nasa a partire dalle 21:40.
Dopo la laurea triennale e magistrale in chimica presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II e il dottorato in chimica, con una tesi su studi spettroscopici di sistemi molecolari rilevanti per l’astrobiologia, presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, la ricercatrice di origine napoletana è stata post-doc all’Osservatorio Astrofisico di Arcetri, poi postdoctoral research fellow presso il Geophysical Laboratory del Carnegie Institution for Science a Washington DC, negli Stati Uniti, dove ha lavorato sull’interazione di molecole e minerali analoghi del suolo marziano per supportare le attività scientifiche dello strumento Sample Analysis at Mars (Sam) a bordo del rover Curiosity della Nasa, attualmente su Marte, e della missione ExoMars 2022 di Esa e Roscosmos. Dal 2019 è rientrata in Italia dopo aver vinto un concorso per “Giovani ricercatori” ed essere stata assunta a tempo indeterminato dall’Inaf.
Dottoressa Fornaro, qual è il suo ruolo nella missione Mars 2020?
«Sono una dei tredici Mars 2020 participating scientists selezionati in risposta a un bando della Nasa per entrare a far parte del team scientifico della missione insieme ai principal investigator e co-investigator dei vari strumenti, ai loro collaboratori e a un altro gruppo di ricercatori, i returned sample scientists, che selezioneranno i campioni da riportare sulla Terra con una possibile missione futura».
Che significa essere Mars 2020 participating scientist?
«Ognuno di noi ha proposto un progetto di ricerca che ha a che fare con uno o più strumenti a bordo del rover. Il bando è stato pubblicato a marzo 2020, la conferma è arrivata lo scorso novembre. Ora stiamo ricevendo i training per le operazioni di superficie, come operare scientificamente il rover per portare avanti il nostro progetto, imparando da chi ha più esperienza da altre missioni. Oltre alle operazioni, il mio progetto prevede esperimenti in laboratorio».
Di cosa si tratta esattamente?
«Il mio progetto assisterà l’analisi e interpretazione di dati che verranno raccolti dagli strumenti SuperCam e Sherloc, supportando il team di questi due strumenti con esperimenti di laboratorio. Come participating scientist porto due collaboratori, John Brucato e Giovanni Poggiali sempre di Arcetri. Il nostro ruolo sarà quello di aiutare il team scientifico a identificare molecole organiche sulla superficie del pianeta, la loro natura e il loro stato di preservazione».
Dove lavorano gli altri participating scientists?
«La maggior parte sono negli Stati Uniti. Siamo solo tre in istituzioni estere: io rappresento l’Inaf, poi c’è un collega di Oxford e un altro di un’università canadese. Siamo solo in due con un focus sulle molecole organiche, gli altri progetti sono più incentrati sulla geologia marziana».
Come funziona la collaborazione?
«Siamo perennemente in teleconferenza. In altri tempi saremmo stati tutti al Jet Propulsion Laboratory (Jpl) della Nasa per un periodo di co-location di circa tre mesi dopo l’arrivo su Marte, adesso chiaramente è tutto in remoto. Il training sulle operazioni è molto entusiasmante, certo anche faticoso. Da quando saremo su Marte, almeno per il primi 90 giorni circa, seguiremo il tempo marziano che è diverso da quello terrestre perché il giorno su Marte dura 40 minuti in più e quindi ogni giorno slitterà l’orario in cui inizieremo le operazioni del rover il giorno successivo. Per noi in Europa inoltre c’è la differenza di fuso orario e anche più avanti, quando si passerà a orari lavorativi standard secondo il fuso orario californiano, dovremo lavorare anche di notte, facendo i turni tra vari membri del team per poter operare su Marte sette giorni su sette».
Su quali aspetti scientifici si concentrerà una volta che il rover sarà arrivato sulla superficie marziana?
«Il mio progetto consiste nell’aiutare il team scientifico a individuare molecole organiche sulla superficie del pianeta e comprendere la loro natura, cercando di distinguere tra molecole abiotiche, cioè derivanti da processi che non riguardano la vita (per esempio processi geologici, oppure reazioni chimiche avvenute nello spazio), e potenziali biosignature molecolari, ovvero molecole di origine biologica».
Come si fa a distinguere tra questi processi?
«Supportiamo la missione con esperimenti di laboratorio. All’Osservatorio di Arcetri abbiamo un laboratorio ben equipaggiato con strumenti che permettono di simulare l’ambiente marziano. Noi sintetizziamo degli analoghi del suolo marziano che contengono molecole organiche di tipo sia biologico che abiotico, e poi li sottoponiamo a condizioni marziane, per esempio irraggiamento ultravioletto, bassa temperatura, atmosfera ricca di anidride carbonica, eccetera. Quindi riproduciamo le condizioni marziane e andiamo a vedere come le molecole si degradano in questo ambiente ostile: questo supporta la missione perché aiuteremo il team scientifico a comprendere lo stato di preservazione di composti organici in base ai risultati di questi esperimenti fatti in laboratorio».
Riguardo al suo progetto di ricerca, ha accennato a due strumenti di Perseverance: SuperCam e Sherloc. Ce ne può parlare?
«Il nostro progetto supporta in particolare due strumenti a bordo del rover, che sono quelli che hanno la potenzialità di trovare organici.
SuperCam si trova sulla testa del rover ed è uno strumento che esegue misure a lungo raggio tramite una molteplicità di tecniche: spettroscopia Raman, spettroscopia nel vicino infrarosso, spettroscopia Libs (Laser induced breakdown spectroscopy, una tecnica che misura la composizione elementare delle rocce vaporizzandole con un laser e misurandone l’emissione ottica), e poi mediante un microfono e una telecamera. Di queste tecniche il Raman e l’infrarosso possono essere utilizzate per rivelare composti organici, oltre all’identificazione dei minerali. SuperCam permette di analizzare campioni marziani fino a 7 metri di distanza con la tecnica Raman e Libs, anche di più con l’infrarosso e la telecamera, fornendo il contesto geologico e indicando i luoghi più interessanti dove parcheggiare il rover ed effettuare misure di prossimità con gli altri strumenti che si trovano sul braccio robotico: Sherloc e Pixl.
Sherloc è uno strumento che effettuerà misurazioni a distanza ravvicinata. È uno spettrometro di fluorescenza e Raman risonante, che utilizza un laser nel profondo ultravioletto ed è particolarmente idoneo per identificare molecole organiche. Uno dei vantaggi di questo tipo di laser è che rende possibile separare il segnale Raman da quello di fluorescenza, ottenendo un rapporto segnale-rumore migliore. Un altro vantaggio è che nel profondo ultravioletto alcuni composti molecolari organici, in particolare quelli aromatici, presentano condizioni di risonanza o pre-risonanza: la lunghezza d’onda del laser corrisponde ad alcune transizioni elettroniche per queste molecole e questo aumenta il segnale proveniente da queste molecole da 100 a 10.000 volte. Quindi è molto sensibile, si possono rivelare concentrazioni inferiori a una parte per milione per i composti aromatici, e centinaia di parti per milione per i composti alifatici.
Sherloc permette di rilevare non solo organici ma anche minerali, con una risoluzione spaziale di 30 micron, quindi minerali con grani molto piccoli. E poi ha anche una telecamera, che si chiama Watson giustamente, e che acquisirà delle immagini a colori per studiare il contesto in cui vengono effettuate le misure spettroscopiche. Quindi avremo sia l’immagine del campione che le sue caratteristiche spettroscopiche per mappare la distribuzione dei minerali e organici sull’area del campione che viene investigata».
Che tipo di minerali vi aspettate di trovare?
«Dalle misure orbitali della missione Mars Reconnaissance Orbiter si può dedurre che tipo di minerali troveremo nel cratere Jezero, il luogo dove atterrerà Perseverance, che si pensa sia stato un lago nel quale sfociava un fiume che ha lasciato un meraviglioso delta. Ci aspettiamo di trovare tre tipi di minerali maggioritari: materiali argillosi sul fondo del cratere, silice idrata nella regione del delta, e carbonati sul bordo ovest del cratere.
Tutti e tre questi materiali sono di grande interesse astrobiologico. I materiali argillosi e la silice idrata sono molto interessanti perché sono in grado di preservare biosignature sulla Terra, quindi eventuali fossili di forme di vita microbiche potrebbero essere stati preservati in questi materiali argillosi o nei depositi del delta. I carbonati invece, sempre sulla Terra, aiutano a formare strutture che resistono in forma di fossili per miliardi di anni come i coralli, le conchiglie, le stromatoliti, che derivano da attività di tipo biologico. Le stromatoliti sono i fossili più antichi rinvenuti sulla Terra. Se mai c’è stata vita su Marte, ci si aspetta che in quella regione eventuali resti di forme di vita potrebbero essere rinvenuti in questi depositi.
I carbonati sono interessanti anche per un altro motivo, perché ci aiuterebbero a comprendere come è avvenuta la transizione da un pianeta in cui vi era acqua allo stato liquido e un’atmosfera più spessa [come si pensa che fosse Marte oltre 3.5 miliardi di anni fa, ndr] a un pianeta arido, deserto e gelido come quello che abbiamo adesso. I carbonati possono aiutarci a capire com’è avvenuta l’essiccamento di Marte perché derivano dall’interazione tra anidride carbonica atmosferica e acqua allo stato liquido».
E per quanto riguarda le molecole organiche?
«È una domanda difficile. Stiamo sviluppando strumenti per rilevare biosignature di tipo terrestre, perché la vita sulla Terra è l’unica forma di vita che conosciamo, quindi basiamo i nostri strumenti su tecnologie che possono andare a rivelare molecole simili a quelle che utilizziamo noi sulla Terra. Quindi c’è un bias, ovviamente. C’è una grande discussione in campo astrobiologico sul cercare delle biosignature “agnostiche”, in un certo senso “universali”, che possono indicare forme di vita anche diverse dalla nostra. Però quello che ci aspettiamo per Marte non è molto diverso dalla Terra.
Il cratere Jezero è molto antico, ha 3.5 miliardi di anni, e a quell’epoca il pianeta Marte era molto simile alla Terra, dove fra l’altro la vita unicellulare già si era sviluppata. In condizioni simili – su Marte vi era acqua, la temperatura era più mite, c’era un’atmosfera che proteggeva la superficie da radiazioni dannose e tutti gli ingredienti chimici per la vita – è presumibile che forme di vita si possano essere sviluppate in modo simile a quelle terrestri, da un punto di vista deterministico, quindi seguendo le stesse leggi della fisica e della chimica.
Per questo le biosignature che cerchiamo sono, da una parte, le molecole organiche chiaramente di origine biologica, la cui formazione non si può spiegare con nessun altro processo che non sia biologico, come per esempio gli acidi nucleici, alcuni amminoacidi chirali, gli isoprenoidi. Dall’altra cerchiamo anche biosignature chimiche, cioè elementi chimici chiave nei processi biologici, come zolfo, azoto, alcuni metalli di transizione; biosignature mineralogiche, cioè minerali associati ad attività biologica, per esempio carbonati, fosfati e solfuri; e infine biosignature morfologiche o strutturali, cioè microrganismi fossilizzati come appunto le stromatoliti».
A che tipo di vita si possono ricollegare queste biosignature?
«Le biosignature che cerchiamo su Marte sono tutte riconducibili a un tipo di vita unicellulare. Questo perché evidenze di vita multicellulare sulla Terra sono comparse solo dopo miliardi di anni, dopo l’ossigenazione dell’atmosfera, quando è stato finalmente possibile uno sviluppo più complesso dei microrganismi.
Su Marte questo non è avvenuto, perché le condizioni “floride” presenti nell’era noachiana, da 4.1 a 3.7 miliardi di anni fa, sono mutate rapidamente: il pianeta essendo molto piccolo si è raffreddato rapidamente, questo ha fatto sì che il suo campo magnetico si spegnesse e che quindi il vento solare e le radiazioni spazzassero via l’atmosfera. E così sono evaporate tutte le specie volatili inclusa l’acqua, la temperatura è scesa, si è formata la criosfera – la zona della superficie di Marte in cui tutta l’acqua si trova allo stato ghiacciato – e il pianeta è diventato sempre più arido e inospitale, quindi non ci aspettiamo che si sia sviluppato niente di complesso».
Che differenze ci sono tra gli obiettivi di Perseverance rispetto ad altri rover quali Curiosity, su Marte dal 2012, e Rosalind Franklin della prossima missione ExoMars?
«La novità principale di Mars 2020 rispetto a Curiosity è che, oltre a cercare segni di vita passata con analisi in situ utilizzando un nuovo payload scientifico, ha la capacità di selezionare campioni da riportare sulla Terra con missioni future. Infatti la campagna di Mars Sample Return inizia con questa missione. La responsabilità che abbiamo come team scientifico è enorme: dobbiamo scegliere i campioni più interessanti da riportare sulla Terra per studiare sia dal punto di vista astrobiologico che più in generale la storia passata di Marte. Questo materiale sarà analizzato per decenni da generazioni di scienziati. Con gli strumenti a bordo del rover possiamo solo individuare potenziali biosignature. Nei laboratori terrestri, con strumenti molto più all’avanguardia e la possibilità di manipolare meglio i campioni, ci aspettiamo di poter finalmente rispondere alla domanda che a me interessa di più: c’è mai stata vita su un altro pianeta?
Altre differenze rispetto a Curiosity sono una serie di dimostrazioni tecnologiche che sono interessanti anche per preparare l’esplorazione umana di Marte. Per esempio lo strumento Moxie (Mars Oxygen In-Situ Resource Utilization Experiment) testerà la produzione di ossigeno dalla decomposizione elettrolitica dell’anidride carbonica atmosferica. Oppure l’elicottero Ingenuity, il primo velivolo a dimostrare la possibilità di volare nella sottile atmosfera marziana.
Per quanto riguarda la missione ExoMars, diciamo che è complementare a Mars 2020. Perseverance utilizzerà un trapano per raccogliere campioni ma la profondità di campionamento è di pochi centimetri, mentre ExoMars – quando atterrerà nel 2023 – potrà raggiungere fino a due metri sotto la superficie, quindi permetterà per la prima volta in assoluto di cercare biosignature in luoghi caratterizzati da un potenziale di preservazione più elevato rispetto alla superficie dove invece irraggiamento e ossidanti causano la degradazione della materia organica».
Cosa farà durante i fatidici “sette minuti di terrore” prima dell’atterraggio?
«Spero di non impazzire. Del resto non dovrò farlo perché sarò collegata su RaiNews24 per la diretta Tv quindi dovrò cercare di mantenere la calma! Contemporaneamente sarò collegata in remoto anche con il team scientifico per poter vivere insieme l’esperienza dell’atterraggio. In tempi non-covid saremmo stati tutti insieme a Jpl per l’atterraggio e le prime operazioni del rover, adesso purtroppo non è possibile, solo alcuni ingegneri saranno a Jpl, quindi siamo costretti a riunirci in maniera remota».
Come si trova un chimico tra gli astrofisici?
«Imparo sempre cose nuove. Però non mi sento estranea, sia perché l’ambiente all’Osservatorio di Arcetri è molto amichevole – io sono arrivata nel 2011 quando ero solo una studentessa e sono stata accolta meravigliosamente – e poi anche perché grazie all’argomento di cui mi occupo, l’astrobiologia, in cui le mie competenze sono necessarie, ho trovato un terreno fertile e persone estremamente interessate all’utilizzo delle mie conoscenze per risolvere problemi di tipo multidisciplinare, dove appunto non basta solo l’astrofisica.
Per chi studia chimica e vuole entrare nel campo dell’astrobiologia, consiglio di provare questa strada. Non è facile ovviamente, però la multidisciplinarietà sta prendendo piede anche in Italia e l’astrobiologia è un campo che sta acquisendo sempre più interesse, con la creazione di corsi specifici su questa materia all’interno dei classici corsi di studio in fisica o in biologia. Materie multidisciplinari come l’astrobiologia consentono a chi ha esperienze di studi diversi, come nel mio caso, di poter entrare a far parte di un ente come l’Inaf che storicamente ha assunto principalmente astrofisici. Quindi il mio consiglio è quello di non scoraggiarsi di fronte alla complessità che ci si trova ad affrontare nel campo dell’astrobiologia ma di perseverare!».