Gli ingredienti giusti per scoprire come si formano le stelle massicce – quelle almeno 20 volte più massicce del Sole – sono appena tre, secondo uno studio pubblicato lo scorso dicembre su The Astrophysical Journal. Il primo è un array di radiotelescopi, Alma, utilizzato in modalità long baseline, il secondo un luogo particolarmente prolifico, nella nostra galassia – come il centro galattico, oppure W51, quello di questo studio – e il terzo è un esperto di astrofisica alle lunghezze d’onda radio – e soprattutto un esempio di perseveranza. Non sempre un articolo viene pubblicato quando, come e dove lo si voleva pubblicare. E questo di cui vi parliamo oggi – passato prima da Nature, poi da Nature Astronomy per approdare infine alle pagine di ApJ – è un esempio emblematico del percorso non sempre lineare che un articolo può trovarsi a dover percorrere.
Il primo autore è Ciriaco Goddi, astrofisico nato e cresciuto a Orune, nel centro della Sardegna, e ricercatore giramondo ora stanziato in Olanda, dove da sei anni ricopre il ruolo di project scientist del progetto BlackHoleCam e – fino allo scorso anno – di segretario del consiglio scientifico dell’Event Horizon Telescope (Eht), la collaborazione che ha firmato la prima foto di un buco nero. La sua scoperta offre la prima prova osservativa del fatto che le stelle molto massicce accrescono la loro massa in modo assai diverso rispetto alle loro sorelle meno massicce – che si formano attraverso un ordinato disco di accrescimento circumstellare – e in particolare attraverso filamenti che precipitano sulla protostella e getti di materiale molto energetici espulsi da essa. Goddi racconta a Media Inaf tutti i retroscena della sua tormentata pubblicazione scientifica.
Parliamo del suo articolo pubblicato a dicembre su Apj. Era comparso per la prima volta come preprint su arXiv nel 2018. Che è successo nei due anni e mezzo successivi?
«Dunque, quando abbiamo preso questi dati eravamo molto eccitati perché era la prima volta – dopo il commissioning – che si poteva usare Alma nella configurazione long baseline: configurazione che ci ha consentito di raggiungere una risoluzione dieci volte superiore rispetto agli studi precedenti, e grazie alla quale eravamo convinti di poter vedere i dischi protoplanetari attorno a stelle massicce in formazione. Le nostre aspettative però, con grande sorpresa, sono state disattese. Al loro posto, una serie di altri fenomeni interessanti, come lunghi filamenti che convergono sul core stellare, getti molto energetici e veloci e diversi elementi di novità rispetto agli studi e alle convinzioni del periodo. Abbiamo subito realizzato che queste osservazioni potessero avere un impatto importante anche sulla teoria – che nel campo delle stelle massicce è ancora tutta da testare».
E avete sottomesso l’articolo a Nature…
«Proprio così. Ho contattato l’editor di Nature e lui si è detto molto interessato ai nostri risultati. Ho quindi trascorso tutto il 2017 a scrivere l’articolo e l’ho inviato per la revisione. Ci sono stati assegnati due revisori, un teorico e un osservativo. Quest’ultimo era convinto della portata del nostro lavoro e dopo qualche piccolo commento ha espresso un giudizio positivo, raccomandando all’editor la pubblicazione».
Il teorico, invece?
«Il teorico era un po’ stizzito perché ho mancato di citare alcuni lavori teorici che erano stati pubblicati negli ultimi anni e, in particolare, sosteneva che l’elemento di novità dell’articolo fosse già stato predetto dai modelli. Direi che aveva ragione nel dire che non avevo citato tutti gli studi teorici, ma a me sembrava una cosa fantastica avere finalmente dei dati in grado di testarli, i modelli di accrescimento disordinato: è questa l’importanza del nostro lavoro. A quel punto però l’editor ha deciso che un solo parere positivo su due non bastava a pubblicare l’articolo e mi ha suggerito di passare a Nature Astronomy».
E non è andata meglio?
«Andammo incontro a un’altra sequenza di revisioni, avendo cura di mandare un manoscritto con tutte le citazioni richieste dai precedenti revisori. Siamo riusciti a convincere il referee teorico su alcuni aspetti e meccanismi osservativi che non aveva ben compreso, ottenendo infine il suo parere positivo. Il referee osservativo – questa volta – invece sosteneva mancassero delle evidenze riguardanti l’accrescimento di materiale sulla stella».
Secondo lei non aveva ragione?
«Il problema è che con quei dati non riusciamo a misurare esattamente la velocità e il tasso di accrescimento, perché la regione risulta abbastanza opaca. Questo comunque è un problema abbastanza riconosciuto in questo tipo di osservazioni – e per di più noi avevamo argomentato approfonditamente le ragioni per cui si potevano scartare altri meccanismi in favore di quel che proponevamo nell’articolo».
Spieghiamolo bene, a questo punto, visto che finora non l’abbiamo fatto. In cosa consistono le vostre osservazioni e quale processo fisico avete visto?
«L’idea era nata da alcune osservazioni che avevo fatto con il Vla nel 2012, all’epoca dotato di un nuovo strumento che consentiva di studiare tutte le righe dell’ammoniaca a diversi livelli energetici, grazie alle quali avevo ricostruito un gradiente di velocità attorno a una stella in formazione che faceva pensare proprio a un disco di accrescimento. “Questo è il candidato perfetto per Alma”, mi son detto, e così ho scritto un proposal per usare le lunghe baseline in grado di risolverlo spazialmente. Abbiamo osservato questo e altri oggetti nello stesso campo nell’ottobre 2015. La prima sorpresa è stata che dove si vedeva il gradiente di velocità, di dischi non ce n’erano affatto: si trattava di un oggetto evoluto e non particolarmente significativo. Il suo vicino al contrario era molto attivo, e poi nello stesso campo altri due, tutti con elevati tassi di accrescimento della materia, numerosi filamenti e nessun disco. Abbiamo messo insieme le evidenze offerte da questi tre oggetti per affermare di aver trovato la prima prova osservativa dei modelli di accrescimento multidirezionale».
Com’è finita, quindi, con Nature Astronomy?
«Dopo varie interazioni ci hanno detto che non erano convinti di pubblicare il nostro articolo e così ho deciso di mettere l’articolo su arXiv, chiedendo input e commenti da parte della comunità scientifica. Nel luglio 2018 poi, c’è stata anche una conferenza sulla nascita delle stelle di massicce e in quell’occasione ho potuto confrontarmi con molti ricercatori dai quali ho ricevuto feedback molto positivi circa i nostri risultati e le nostre interpretazioni».
Allora come mai avete atteso così tanto per sottoporlo nuovamente a una rivista?
«La ragione per cui è rimasto lì due anni è che doveva essere ristrutturato per la sottomissione a un giornale come ApJ – sul quale ora è finalmente pubblicato. In quel periodo però è iniziato il conto alla rovescia per la pubblicazione della storica foto del buco nero centrale di M87 e questo ha assorbito completamente tutto il mio tempo. Ho dovuto lasciare l’articolo da parte e alla fine sono passati due anni prima che riuscissi a rimetterci mano. Nel frattempo poi – ironia della sorte – ci sono state alcune pubblicazioni che hanno usato le lunghe baseline di Alma e che hanno finalmente trovato dei dischi di accrescimento attorno a stelle massicce. E quindi, quando ho ripreso in mano il lavoro, ho dovuto anche aggiungere una sezione che giustificasse come mai gli altri avevano visto i dischi e noi no».
Cioè?
«Il fatto è che questo campo di indagine, dal 2018 a oggi, è progredito molto. E molti altri esperimenti hanno studiato le stelle massicce in formazione usando la nostra stessa metodologia osservativa. Alcuni di questi hanno trovato dei dischi attorno a stelle di massa superiore alle venti masse solari – proprio quello che inizialmente stavamo cercando anche noi. La differenza però, rispetto alla regione che abbiamo osservato noi, è che questi dischi stanno in ambienti di formazione stellare più isolati e attorno a oggetti più evoluti. In questi oggetti c’è stato più tempo – e meno interferenze da oggetti vicini – per formare un disco dopo che la fase di principale accrescimento fosse terminata. Sono oggetti che sono già entrati nella zero age main sequence – presentano infatti delle regioni di idrogeno ionizzato (HII) – e stanno già ionizzando lo spazio circostante: sono alla fine della loro fase di formazione».
La vostra regione, invece?
«Si tratta della regione più luminosa e attiva della nostra galassia dopo il centro galattico. Offre il vantaggio di osservare tanti oggetti in diversi stadi evolutivi. Quindi, penso che noi abbiamo avuto la fortuna di trovare oggetti in una fase primordiale: attorno a essi non c’è materia ionizzata, ci sono getti potentissimi che trasportano tantissima massa che indicano il tasso di accrescimento è pazzesco. Si tratta però di una fase molto più transiente e inoltre, con questi tassi di accrescimento, le nostre stelle supereranno probabilmente le 50 masse solari e quindi saranno davvero tra le stelle più massicce che esistono».
Quindi anche le stelle che avete osservato voi, in uno stadio evolutivo successivo, potrebbero formare dei dischi?
«Sì, potrebbero, ma a questo punto quel che interessa a noi è capire come queste stelle diventino così massicce. Se queste formano un disco quando hanno già accresciuto la maggior parte della loro massa, allora il meccanismo di formazione è diverso: non avviene cioè in modo lento e ordinato attraverso un disco di accrescimento, ma in modo disordinato attraverso dei filamenti e getti di materia come osserviamo noi. Aver posticipato di due anni l’uscita del nostro articolo, alla fine, ci ha permesso di aggiungere questo importante confronto che prima non c’era».
Ci sono altre osservazioni che hanno osservato lo stesso fenomeno che avete visto voi?
«C’è qualcosina nel centro galattico, ma ancora nessuno studio pubblicato con la risoluzione angolare che abbiamo ottenuto noi nel nostro lavoro – circa 100-200 unità astronomiche a 5 kiloparsec di distanza. Noi stessi in questi anni abbiamo osservato un’altra regione prossima al centro galattico, Sagittario B2, e Orione – dieci volte più vicina a noi ma circa cento volte meno luminosa di W51».
E avete trovato qualcosa?
«In Orione non abbiamo visto nessuna di queste strutture. In Sagittario invece qualcosa c’è, ci stiamo lavorando. Questo sarà il prossimo capitolo: faremo un paragone fra questi tre regimi di formazione delle stelle massicce, in questi tre ambienti con diversa luminosità e con diverso tasso di formazione di nuove stelle – W51, Sagittario e Orione. Le differenze potrebbero essere un effetto dell’ambiente, oppure essere di natura statistica».
Cosa manca alla teoria di evoluzione stellare per avere una comprensione completa di come avviene la formazione di stelle massicce?
«Quello che mancava – prima del nostro studio, prima delle lunghe baseline di Alma – era la risoluzione angolare, che prima si aggirava intorno al migliaio di unità astronomiche, consentendo di vedere solo cluster di oggetti in formazione e non oggetti singoli. Quello che manca ora è lo studio dei campi magnetici: i modelli si basano su simulazioni magneto-idrodinamiche in cui dischi e filamenti sono guidati dalle linee del campo magnetico. Occorre pertanto fare osservazioni in polarizzazione con queste stesse risoluzioni angolari. In parte ce l’abbiamo fatta usando i maser – e questo è un altro ambito in cui ho lavorato molto – ma è un approccio piuttosto complesso. Un metodo più semplice sarebbe usare Alma in polarizzazione, ma per ora questa possibilità è offerta solo per indagare il continuo, e consente cioè di tracciare i campi magnetici della polvere. Noi invece vorremmo vedere i campi magnetici nel gas molecolare e associarli alla cinematica. In altre parole, per testare tutti gli aspetti dei modelli attualmente in competizione manca mettere assieme la morfologia, la dinamica e la struttura del campo magnetico nel gas circumstellare».
Ci sono strumenti che consentono queste osservazioni in polarizzazione?
«Alma è lo strumento oggi disponibile, ma con le limitazioni di cui parlavo prima. Attendiamo quindi di poter studiare i momenti magnetici di molecole come idrossido (OH), metanolo (CH3OH), acqua e monossido di silicio (SiO), cosa che sarà possibile, assieme allo studio del gas ionizzato, con Ska o ngVla. Allora si potranno misurare i campi magnetici usando come traccianti queste molecole».
Sardo ed esperto di astrofisica alle frequenze radio: chiederle se c’è qualche legame con Srt – il Sardinia Radio Telescope – viene spontaneo…
«A dire il vero, è da quando me ne sono andato che mi dico “un giorno ritornerò” – per il momento però non c’è alcuna possibilità concreta. Con i colleghi di Srt e l’Inaf di Cagliari ho un bel rapporto, sia lavorativo sia di amicizia, e abbiamo diversi progetti in corso. Sicuramente in futuro cercherò di utilizzare Srt anche per qualche progetto di ricerca comune. Con l’Italia comunque ho sempre intrattenuto rapporti di collaborazione, sia con i ricercatori con cui ho iniziato a lavorare durante il mio dottorato, in particolare all’Inaf di Arcetri – dove si è trasferito il mio supervisore di tesi e dove c’è il principale gruppo italiano che studia la formazione stellare – sia con i colleghi dell’Inaf-Ira di Bologna per progetti inerenti al telescopio Alma e Eht».
Le piacerebbe tornare alle sue origini o pensa di trattenersi in Olanda?
«Diciamo che per me in Olanda si sta forse chiudendo un ciclo, che negli ultimi anni mi ha anche portato a cambiare un po’ ambito di ricerca, indirizzandomi verso buchi neri e nuclei galattici attivi – cosa che mi ha permesso di lavorare in prima fila nella pubblicazione della famosa foto del buco nero supermassiccio al centro della galassia M87. Negli ultimi anni quindi sono stato molto impegnato in questo, ma nonostante ciò e nonostante per ora io non abbia un programma definito di rientro, l’Italia è sempre presente nel mio futuro».
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “Multi-directional mass-accretion and collimated outflows in W51”, Ciriaco Goddi, Adam Ginsburg, Luke Maud, Qizhou Zhang e Luis Zapata