Non abbiamo fatto in tempo a dar notizia d’uno studio secondo il quale fu un frammento di cometa, all’origine dell’estinzione dei dinosauri, ed ecco che ne viene pubblicato un altro che ci riporta alle origini indicando, invece, proprio un asteroide come probabile colpevole dell’impatto. Cometa o asteroide che fosse, comunque quella dell’impatto di un grande corpo celeste – anziché una serie di eruzioni vulcaniche, o qualche altra calamità globale tutta terrestre – è stata l’ipotesi più accreditata sin dagli anni ’80, quando gli scienziati trovarono, ovunque nel mondo, tracce di polvere extraterrestre – più precisamente, un picco nella concentrazione di iridio – nello stesso strato geologico in cui venivano ritrovati i fossili di dinosauri. Questo strato – datato a 66 milioni di anni fa – è talmente importante da rappresentare non solo il confine temporale tra due periodi, il Cretaceo e il Paleocene, ma anche tra due ere geologiche: il Mesozoico e il Cenozoico, ovvero l’era che arriva fino ai giorni nostri.
La scoperta di questo strato uniforme di polvere proveniente da un corpo extraterrestre ha fornito agli scienziati un’immagine apocalittica di quel periodo, la cui atmosfera fu caratterizzata da un pulviscolo fitto che impedì al calore solare di arrivare sulla Terra per scaldarla e per nutrire la vita tramite la fotosintesi. L’impatto fu, insomma, l’inizio di un inverno planetario che uccise la maggior parte delle specie viventi. La polvere si stese poi nuovamente come un lenzuolo su tutta la Terra.
Negli anni ’90, la relazione tra estinzione del Cretaceo e impatto cosmico venne ulteriormente confermata dalla scoperta del cratere di Chicxulub, nella penisola messicana dello Yucatan, in Messico, datato anch’esso alla fine del Cretaceo. Stando al nuovo studio ora pubblicato su Science Advances, abbiamo finalmente l’anello mancante: quella stessa polvere di asteroide rinvenuta in più parti del mondo – la cui impronta chimica è ben conosciuta – è stata trovata all’interno del cratere di Chicxulub, nella precisa posizione geologica che segna il momento dell’estinzione.
«Il cerchio è ora finalmente completo”, dice Steven Goderis della Vrije Universiteit Brussel, primo autore dell’articolo pubblicato il 24 febbraio su Science Advances. Lo studio è l’ultimo arrivato nell’ambito di una missione internazionale più ampia denominata International Ocean Discovery Program 2016 e condotta, insieme ad altri istituti, dall’Università del Texas con una futuristica lift boat, nave oceanografica curiosamente chiamata Myrtle, ovvero ‘mirto’.
Con l’imbarcazione sollevata su tre pilastri, a mo’ di piattaforma petrolifera, sono state effettuate trivellazioni per un totale di circa 900 metri di nucleo roccioso dal fondo oceanico. La ricerca di questa missione ha contribuito a colmare le lacune sull’impatto, sulle immediate conseguenze e sul recupero della vita, che, come dimostra uno degli studi pubblicati in questa stessa missione, sembra essere stato rapidissimo.
L’inequivocabile segno chimico rivelatore è, appunto, l’iridio: elemento raro nella crosta terrestre ma presente in significativa quantità in alcuni tipi di asteroidi. Nel nuovo studio, i ricercatori hanno trovato un picco di iridio nel carotaggio effettuato in mare: picco compatibile con quello trovato nel resto del mondo e analizzato da laboratori in Austria, Belgio, Giappone e Stati Uniti.
Nel cratere, lo strato di sedimenti depositato subito dopo l’impatto è talmente spesso che se ne possono leggere e interpretare intervalli anche con una risoluzione di pochi anni, tanto che gli scienziati sono stati in grado di datare con precisione quando la polvere si è depositata: nei vent’anni dopo l’impatto. E questo sembra proprio essere l’intervallo di tempo massimo in cui la polvere rimase in sospensione nell’atmosfera prima di scendere al suolo e permettere alla luce solare di raggiungere nuovamente il pianeta. Un dato temporale inedito e cruciale per capire quanto possa essere breve il lasso di tempo che separa una vita rigogliosa e pacifica da un’estinzione di massa – estinzione che dev’essere stata segnata da dolorose fasi di fame di tutti gli esseri viventi prima di completarsi.
«Il livello di coincidenza è ormai tale che, geologicamente parlando, non può presentarsi senza una relazione di causalità», sottolinea Sean Gulick della UT Jackson School of Geosciences, fra i coautori dello studio. «Si pone così fine a qualunque dubbio circa il fatto che l’anomalia dell’iridio possa non essere correlata al cratere Chicxulub».
Le più alte concentrazioni di iridio sono state trovate all’interno di una sezione di 5 centimetri del carotaggio effettuato su quello che un tempo fu il bordo apicale del cratere: un punto di alta quota che si è formato in un contesto di caos totale, quando le rocce incandescenti sono prima rimbalzate e poi collassate per la forza dell’impatto. Quest’estate Gulick e colleghi hanno in programma di tornare nel cratere per iniziare a rilevare i siti al suo centro, dove contano di pianificare una futura impresa di perforazione per recuperare altro materiale asteroidale.
Per saperne di più:
- Leggi su Science Advances lo studio “Globally distributed iridium layer preserved within the Chicxulub impact structure”, di Steven Goderis, Honami Sato, Ludovic Ferrière, Birger Schmitz David Burney, Pim Kaskes, Johan Vellekoop, Axel Wittmann, Toni Schulz, Stepan M. Chernonozhkin, Philippe Claeys, Sietze J. de Graaff, Thomas Déhais, Niels J. de Winter, Mikael Elfman, Jean-Guillaume Feignon, Akira Ishikawa, Christian Koeberl, Per Kristiansson, Clive R. Neal, Jeremy D. Owens, Martin Schmieder, Matthias Sinnesael, Frank Vanhaecke, Stijn J. M. Van Malderen, Timothy J. Bralower, Sean P. S. Gulick, David A. Kring, Christopher M. Lowery, Joanna V. Morgan, Jan Smit, Michael T. Whalen e IODP-ICDP Expedition 364 Scientists