La spazzatura non è un problema limitato alla Terra. Secondo la Nasa, attualmente ci sono milioni di rifiuti spaziali tra 200 e 2000 chilometri sopra le nostre teste – in quella che viene chiamata orbita terrestre bassa (Leo). La maggior parte della spazzatura spaziale è composta da oggetti creati da noi, come pezzi di vecchi veicoli spaziali o satelliti ormai in pensione. Questi detriti spaziali possono raggiungere velocità fino a 30mila chilometri orari, rappresentando un grave pericolo per i 2612 satelliti che attualmente operano a quelle quote. Senza strumenti efficaci per il tracciamento dei detriti spaziali, alcune zone dell’orbita bassa potrebbero diventare troppo pericolose per i satelliti.
In un articolo pubblicato oggi sul Siam Journal on Imaging Sciences, Matan Leibovich (New York University), George Papanicolaou (Stanford University) e Chrysoula Tsogka (University of California, Merced) presentano un nuovo metodo per acquisire immagini ad alta risoluzione di oggetti in movimento e in rotazione nello spazio, come satelliti o detriti in orbita bassa. Gli autori hanno sviluppato un processo di imaging che prima utilizza un nuovo algoritmo per stimare la velocità e l’angolo di rotazione di un oggetto nello spazio, poi applica tali stime per sviluppare un’immagine ad alta risoluzione del target.
Per testare il loro sistema di imaging spaziale, Leibovich, Papanicolaou e Tsogka hanno utilizzato un modello teorico, mettendolo a confronto con altri due sistemi che si propongono di raggiungere lo stesso scopo. Il modello è costituito da un gruppo di detriti molto piccoli e altamente riflettenti (come potrebbero essere i pannelli solari di un satellite), in rapido movimento. Questi oggetti si muovono tutti insieme con la stessa velocità e direzione, ruotando attorno a un comune centro. Nel modello, diverse sorgenti di radiazione sulla superficie terrestre – come le stazioni di controllo a terra dei sistemi satellitari di navigazione globale – emettono impulsi che vengono riflessi dai frammenti spaziali. Un insieme distribuito di ricevitori rileva e registra i segnali riflessi sugli obiettivi.
Il modello si concentra su sorgenti che emettono radiazioni in banda X delle microonde, da 8 a 12 GHz. «È ben noto che la risoluzione può essere migliorata utilizzando frequenze più alte, come la banda X», riferisce Tsogka. «Le frequenze più alte, tuttavia, provocano distorsioni dell’immagine dovute alle fluttuazioni ambientali dovute agli effetti atmosferici». I segnali sono distorti dalla turbolenza dell’aria che incontrano viaggiando fino ai ricevitori, il che può rendere l’imaging di oggetti in orbita bassa piuttosto impegnativo. Il primo passo del processo di imaging è stato quindi correlare i dati acquisiti da diversi ricevitori, al fine di ridurre gli effetti di queste distorsioni.
Il diametro dell’area racchiusa dai ricevitori è chiamato apertura fisica del sistema di imaging e nel modello è di circa 200 chilometri. In condizioni di imaging normali, la dimensione dell’apertura fisica determina la risoluzione dell’immagine risultante: un’apertura maggiore genera un’immagine più nitida. Tuttavia, il rapido movimento del target rispetto ai ricevitori può creare un’apertura sintetica inversa, nella quale i segnali che sono stati rilevati su più ricevitori mentre il target si sposta nel loro campo visivo vengono sintetizzati in modo coerente. Questa configurazione può migliorare efficacemente la risoluzione, come se il sistema di imaging avesse un’apertura più ampia di quella fisica.
Gli oggetti in orbita bassa possono ruotare su scale temporali che vanno da una rotazione completa ogni pochi secondi a qualche centinaio di secondi, il che complica il processo di imaging. È quindi importante conoscere, o almeno essere in grado di stimare, alcuni dettagli sulla rotazione prima di sviluppare l’immagine. Gli autori hanno dovuto quindi stimare i parametri relativi alla rotazione dell’oggetto prima di sintetizzare i dati provenienti da diversi ricevitori. Sebbene il semplice controllo di tutti i parametri possibili per ottenere un’immagine più nitida sia tecnicamente fattibile, farlo richiederebbe molta potenza di calcolo. Invece di utilizzare questo approccio di forza bruta, gli autori hanno sviluppato un nuovo algoritmo in grado di analizzare i dati di imaging per stimare la velocità di rotazione dell’oggetto e la direzione del suo asse.
Dopo aver tenuto conto della rotazione, il passaggio successivo è stato analizzare i dati per sviluppare un’immagine dei detriti spaziali quanto più accurata e ben risolta possibile. Comunemente vengono utilizzati due metodi per fare imaging di oggetti in rapido movimento: il primo metodo – chiamato single-point migration of cross correlations – risente poco delle fluttuazioni atmosferiche ma non ha una risoluzione molto elevata; il secondo metodo (chiamato migrazione di Kirchhoff) potrebbe raggiungere potenzialmente un’alta risoluzione, ma risente delle fluttuazioni atmosferiche che la degradano inevitabilmente. Gli autori hanno proposto un terzo metodo, con l’obiettivo di creare un nuovo sistema di imaging che non sia influenzato troppo pesantemente dalle fluttuazioni atmosferiche e sia caratterizzato da un’elevata risoluzione. Il risultato del loro algoritmo è chiamato immagine di rango 1.
Gli autori hanno confrontato le prestazioni dei tre sistemi di imaging concludendo che l’immagine di rango 1 è molto più accurata e ben risolta rispetto a quella ottenuta con il primo metodo e, sebbene abbia alcune affinità con quella ottenuta con il secondo metodo, il loro algoritmo risulta essere più resistente agli effetti atmosferici.
«Nel complesso, questo studio ha fatto luce su un nuovo metodo di imaging di oggetti in rapido movimento e rotazione nello spazio», conclude Tsogka. «Questo è di grande importanza per garantire la sicurezza dell’orbita bassa, che è la spina dorsale del telerilevamento globale».
Per saperne di più:
- Leggi su Siam Journal on Imaging Sciences l’articolo “Correlation Based Imaging for Rotating Satellites” di Matan Leibovich, George Papanicolaou e Chrysoula Tsogka