Prendete delle particelle cariche provenienti dal Sole, degli elettroni, e fateli giungere in prossimità delle linee di campo magnetico di un pianeta, diciamo la Terra. Queste arrivano, vengono intrappolate dal campo magnetico, incanalate in flussi diretti verso i poli ma non proseguono oltre. Non possono cioè entrare nell’atmosfera. Fine della storia? Nient’affatto. Se tutti gli elettroni del plasma solare supersonico fossero irrimediabilmente respinti dal campo magnetico terrestre non vedremmo le aurore.
Quale informazione è stata omessa nel racconto, dunque? Non tutti gli elettroni vengono bloccati, alcuni riescono a vincere la forza dello campo magnetico e passano oltre. Per poterlo fare, queste particelle vengono accelerate verso il basso e riescono quindi a penetrare fino a raggiungere la termosfera – situata a circa 100 km sopra la superficie terrestre. Qui si scontrano con atomi di ossigeno e azoto residenti e li portano a uno stato eccitato. La successiva transizione verso uno stato neutro energeticamente stabile dà luce agli archi aurorali.
Questo meccanismo di genesi delle aurore è noto da tempo, e gli scienziati sono concordi nell’attribuire agli elettroni magnetosferici accelerati l’induzione del fenomeno. Ci sono però almeno un paio di dubbi e questioni irrisolte in questa faccenda. La prima, quale sia la massima altezza alla quale questi elettroni vengono accelerati. La seconda, quale sia esattamente il meccanismo fisico che induce tale accelerazione.
Come abbiamo detto, gli archi aurorali discreti sono una manifestazione del flusso di energia dalla magnetosfera alla ionosfera: più precisamente, la luce aurorale è eccitata da elettroni che precipitano nella ionosfera con energie di 1-10 keV mentre trasportano una corrente allineata verso l’alto. L’accelerazione richiesta a far precipitare tali elettroni verso il basso è indotta da un campo elettrico parallelo al campo magnetico. Questo campo elettrico parallelo è stato misurato direttamente in situ nella cosiddetta regione di accelerazione e confermato anche da altre evidenze, ma – come dicevamo – il meccanismo che lo genera rimane tutt’ora sconosciuto.
Nemmeno l’estensione in altezza di questa regione di accelerazione è attualmente certa: si presume essa si trovi nella zona di transizione tra i plasmi ionosferici e magnetosferici, tipicamente a 1000-20mila km di altitudine. Uno nuovo studio pubblicato su Scientific Reports, però, riporta misure ed evidenze che gli elettroni vengano accelerati almeno fino a circa 30mila km di altezza.
«Il nostro studio dimostra che il campo elettrico che accelera le particelle aurorali può esistere a qualsiasi altezza lungo una linea di campo magnetico e non è limitato alla regione di transizione tra la ionosfera e la magnetosfera a diverse migliaia di chilometri», dice Sun Imajo, ricercatore dell’institute for Space-Earth Environmental Research dell’università di Nagoya, in Giappone, e primo autore dello studio. «Questo suggerisce che siano in gioco altri meccanismi magnetosferici a oggi sconosciuti»
Il team ha esaminato i dati raccolti da telescopi all-sky imager della rete Themis – Time History of Events and Macroscale Interactions during Substorms – negli Stati Uniti e in Canada, dotati di una risoluzione spaziale e temporale sufficientemente elevata, e dal rilevatore di elettroni ospitato da Arase, un satellite giapponese che studia una fascia di radiazioni nella magnetosfera interna della Terra. I dati fanno riferimento a un evento avvenuto il 15 settembre 2017, fra le 02:35 e le 02:42 UT, quando Arase era a circa 30mila chilometri di altitudine e si è trovato all’interno di un sottile arco aurorale attivo per diversi minuti. Gli scienziati sono riusciti a misurare i movimenti verso l’alto e verso il basso di elettroni e protoni, deducendo alla fine che la regione di accelerazione degli elettroni iniziava sopra il satellite e si estendeva sotto di esso. Le evidenze raccolte non lasciano spazio a dubbi, secondo gli autori, in quanto sono del tutto confrontabili e simili a quelle raccolte da satelliti a quote più basse, ma si trovano migliaia di chilometri più su, all’interno del plasma magnetosferico vero e proprio.
Saranno necessari ulteriori studi effettuati in condizioni e occasioni simili per indagare più approfonditamente la questione. Comprendere il meccanismo di formazione di un campo elettrico parallelo quasi elettrostatico nel nostro pianeta, poi, è cruciale anche per seguire i processi di emissione di aurore e il trasporto di corrente su altri pianeti, primi fra tutti Giove e Marte.
Per saperne di più:
- Leggi su Scientific Reports l’articolo “Active auroral arc powered by accelerated electrons from very high altitudes”, di Shun Imajo, Yoshizumi Miyoshi, Yoichi Kazama, Kazushi Asamura, Iku Shinohara, Kazuo Shiokawa, Yoshiya Kasahara, Yasumasa Kasaba, Ayako Matsuoka, Shiang-Yu Wang, Sunny W. Y. Tam, Tzu‑Fang Chang, Bo‑Jhou Wang, Vassilis Angelopoulos, Chae-Woo Jun, Masafumi Shoji, Satoko Nakamura, Masahiro Kitahara, Mariko Teramoto, Satoshi Kurita e Tomoaki Hori