Un antineutrino. Uno. Ma d’energia inimmaginabile: 6.3 PeV. Al Cern, per produrre una particella del genere, dovrebbero aumentare la potenza massima di Lhc di circa mille volte. Non si sa quale acceleratore naturale abbia scagliato “Hydrangea” – questo il nome che è stato dato all’evento prodotto – nel cosmo, ma senz’ombra di dubbio si tratta di una particella di origine astrofisica: ovvero non ha avuto origine nell’atmosfera ma in qualche remoto luogo dell’universo, probabilmente nei dintorni di un buco nero supermassiccio. Quel che è certo è che è arrivata sulla Terra nella notte fra il 7 e l’8 dicembre 2016 – per l’esattezza, alle 01:47:59 Utc. Orario in cui alcuni dei cinquemila fotomoltiplicatori del più grande telescopio per neutrini esistente al mondo – IceCube, sotto i ghiacci del Polo sud – hanno assistito per la prima volta nella storia a un fenomeno previsto sin dal 1959 ma mai osservato prima di quella notte di quattro anni fa: la risonanza di Glashow.
Andiamo dunque per un istante indietro nel tempo fino al 1959. Sheldon Lee Glashow (nel caso ve lo stiate chiedendo: no, nessuna parentela con lo Sheldon di The Big Bang Theory), all’epoca 27 anni, fisico newyorkese di origini ebraiche, è ricercatore postdoc in quello che sarebbe poi diventato l’istituto Niels Bohr di Copenaghen. Esattamente vent’anni dopo, nel 1979, riceverà – insieme ad Abdus Salam e Steven Weinberg – il premio Nobel per la fisica per l’elaborazione della teoria dell’interazione elettrodebole, quella mediata dai bosoni W e Z. Ed è proprio nell’ambito dell’interazione elettrodebole che formula la sua predizione: i bosoni W con carica negativa posso avere origine da una collisione fra un elettrone e un antineutrino elettronico. C’è però un problema: il fenomeno – la risonanza di Glashow, appunto – per avvenire richiede antineutrini con un’energia di 6.3 PeV. Il che rende praticamente impossibile una verifica sperimentale in laboratorio. Occorrerebbe un superacceleratore di particelle… come quello, appunto, che ha prodotto l’antineutrino visto da IceCube.
Risonanza di Glashow verificata, dunque? Quasi. Se sull’origine astrofisica dell’antineutrino ci sono ben pochi dubbi, sul fatto che il fenomeno al quale hanno assistito i rivelatori di IceCube sia proprio la risonanza di Glashow c’è ancora qualche margine d’incertezza: il sigma è solo 2.3, dunque ancora lontano dal “cinque sigma” che convenzionalmente segna, nella fisica sperimentale, lo spartiacque fra probabile e certo. L’ideale sarebbe vederne un altro, di questi antineutrini. Ideale non solo per ridurre l’incertezza ma anche perché si aprirebbe la strada a un nuovo filone dell’astronomia, fondato sulla capacità di distinguere – tra quelli di origine astrofisica – fra neutrini e antineutrini.
«Le misure precedenti non erano sensibili alla differenza fra neutrini e antineutrini, quindi questo risultato è la prima misura diretta di un antineutrino nel flusso dei neutrini astrofisici», dice la cacciatrice di neutrini Lu Lu della University of Wisconsin-Madison, fra le autrici principali dell’articolo che oggi su Nature riporta la scoperta.
«Ci sono una serie di proprietà delle sorgenti di neutrini astrofisici che non possiamo misurare, come la dimensione fisica dell’acceleratore e la forza del campo magnetico nella regione d’accelerazione», aggiunge un altro degli autori del paper, Tianlu Yuan, anch’egli alla University of Wisconsin-Madison. «Proprietà che potremmo riuscire a studiare se riuscissimo a determinare il rapporto fra neutrini e antineutrini».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “Detection of a particle shower at the Glashow resonance with IceCube”, della IceCube Collaboration