Vulcani di roccia, di ferro, di ferro e roccia, vulcani di ghiaccio. Pensavate che i vulcani fossero solo “quella cosa lì” – montagne tronco-coniche percorse da colate laviche incandescenti e condite di scoppiettanti esplosioni di gas, lapilli e pennacchi di ceneri? Questa descrizione corrisponde certamente a una possibilità, la più diffusa qui sulla Terra. Il fenomeno del vulcanismo, però, non è solo di questo mondo. E su un altro pianeta o asteroide, la cui composizione e stratigrafia interna differisce completamente dalla nostra, la normalità potrebbe essere tutt’altra. Sull’asteroide metallico 16 Psyche – obiettivo dell’omonima missione della Nasa in fase di progettazione – ad esempio, le colate laviche potrebbero scorrere fino a 10 volte più velocemente e diffondersi in modo sottile e capillare, rompendosi in una miriade di canali intrecciati. È questo il risultato, appena pubblicato su Nature Communications, di un esperimento pilota – il primo nel suo genere – condotto nella fornace di Syracuse, nello Stato di New York, da Arianna Soldati – giovane e appassionata vulcanologa ora assistant professor alla NC State University, in North Carolina, e prima autrice dello studio. Media Inaf l’ha intervistata.
«Sono appassionata di vulcani da che ho ricordo», racconta Soldati, «e ho sempre saputo di voler diventare una vulcanologa nella vita. Ho studiato geologia a Pavia, poi ho fatto la magistrale a Pisa, e nel mentre ho fatto un paio di esperienze Erasmus a Bristol, in Inghilterra, e a Parigi. Per il dottorato in vulcanologia mi sono trasferita negli Usa, all’università del Missouri, poi sono tornata per un paio d’anni in Europa, per fare un postdoc a Monaco di Baviera, e ora sono finalmente stata assunta come assistant professor qui in North Carolina. Era da quando avevo 15 anni che volevo vivere negli Stati Uniti».
È la prima volta che si interessa, da vulcanologa, a un corpo extraterrestre?
«L’esperimento e le misure su cui si basa questo lavoro risalgono all’estate fra la fine del dottorato e il postdoc a Monaco: ci sono voluti due anni e mezzo dall’idea alla pubblicazione. Finora ho sempre lavorato su colate laviche terrestri, ma in fondo questo tipo di studi è applicabile anche a corpi esterni. Ci sono pianeti come Marte in cui, anche se la composizione è un po’ diversa, i fenomeni vulcanici sono simili alla Terra perché la composizione del pianeta è rocciosa. Poi ci sono casi completamente diversi – mondi metallici o ghiacciati – in cui il materiale a disposizione che può fondersi ed eruttare è metallo o ghiacci di acqua, d’ammoniaca, eccetera. È completamente diverso, per questo è stato interessante esplorare come funziona il vulcanismo su un mondo metallico».
È un’analisi totalmente nuova, quindi?
«A livello osservativo sì: dato che prima d’ora non abbiamo mai visitato un asteroide metallico – come può essere 16 Psyche – non abbiamo idea di come possa essere il vulcanismo lì. Mi piaceva l’idea di immaginare questo fenomeno prima di andare il loco, soprattutto perché a volte è difficile interpretare quel che si vede se non si sa cosa si sta guardando e quali sono le possibilità. Noi siamo soliti utilizzare quello che c’è sulla Terra come un analogo per interpretare quello che vediamo sugli altri pianeti, ma in questo caso ci sono grandi differenze ed è importante basarsi su qualcosa di più simile e mirato. Questi sono i primi esperimenti al mondo sul ferrovulcanismo».
Dal momento che – come diceva – non ci sono studi prima del suo, quanto è stato difficile mettere in piedi l’esperimento?
«In realtà questo esperimento è stato completamente opportunistico. Stavo lavorando a Syracuse con un gruppo che ha una fornace enorme e unica al mondo, in grado di fare colate laviche di un paio di metri. Funziona così: si carica la roccia in pezzetti piccoli, si fa fondere e poi si rovescia il contenuto un po’ per volta, senza svuotarla completamente. Svuotando un terzo alla volta – e poi inserendo del nuovo materiale – si possono fare circa tre colate al giorno. Al termine della serie di esperimenti, infine, la fornace viene svuotata del tutto, per non lasciare a raffreddare la roccia in un blocco unico che, quando si riprende a fare esperimenti, impiega moltissimo tempo a fondersi. Quindi quel giorno stavamo svuotando la fornace al termine delle misure, e dopo l’ultima colata di roccia, verso la fine del flusso, noto che esce qualcosa di strano: colore diverso, flusso molto più veloce».
Cosa stava succedendo?
«Ho chiesto a Jeff, coautore di questo studio e responsabile del laboratorio di Syracuse, e lui molto tranquillamente mi ha risposto “Ah, sì, questo è metallo, esce sempre alla fine degli esperimenti”. A quel punto ho avuto una sorta di illuminazione».
Riguardo il metallo?
«Da pochi giorni era uscita la notizia dell’approvazione della missione Psyche della Nasa, e ne stavano parlando davvero molto nelle notizie. Quindi mi sono detta: “questo è esattamente quello che potrebbe succedere in un asteroide metallico”. Ne abbiamo parlato e abbiamo provato a capire come mettere in piedi degli esperimenti più realistici e mirati».
E quel metallo che fuoriusciva dalla fornace, da dove veniva?
«I miei collaboratori di Syracuse pensavano che, siccome la roccia che utilizziamo proviene da una cava di basalto nel Wisconsin, e viene sminuzzata al diametro della ghiaia da un macchinario con ingranaggi metallici, i residui provenissero da questo processo».
Non era così?
«In verità no. Siccome di solito nel mio laboratorio faccio esperimenti utilizzando la roccia, ma su scale molto più piccole – uso crogioli di circa 5 cm –, sapevo che questa conteneva circa il 10 per cento di ferro. Lo so perché questa percentuale, per quanto piccola, crea un sacco di problemi: ad esempio, poiché il ferro cambia stato di ossidazione con la temperatura, induce la formazione di bolle e fa fuoriuscire la lava dal crogiolo. Ho subito pensato che anche nella grande fornace di Syracuse il ferro non fosse di origine esterna alla roccia, ma che si fosse separato da essa cadendo nel fondo».
Perché è più pesante?
«Esattamente. L’abbiamo in seguito confermato comparando la composizione della roccia in entrata con quella della colata lavica in uscita – che infatti conteneva meno ferro. Fra l’altro, questo processo è interessante perché c’è una similitudine, dal punto di vista meccanico, con la segregazione del nucleo metallico quando si formano i pianeti. In quel caso però lo stato di ossidazione non c’entra, è solo una questione di densità».
Torniamo quindi all’esperimento. Avete ricercato una composizione lavica simile a quella che si potrebbe trovare sull’asteroide 16 Psyche?
«In realtà no. Non sappiamo esattamente quale sia la composizione di questo asteroide – che è parte del motivo per cui la Nasa vuole andarci. I dati che ci sono finora indicano che si tratta di un corpo metallico, e non si sa molto altro. L’idea, quindi, era più che altro di vedere la dinamica, ovvero come fluisce e come scorre una lava metallica rispetto a una di roccia, e cosa succede se sono insieme. Su Psyche non pensiamo che siano insieme, pensiamo che sia solo metallo».
Nel vostro studio, però, le avete studiate insieme?
«Sì, pensavamo fosse interessante vederle insieme perché è stato teorizzato, in altri lavori, che ci siano mondi in cui le due coesistono. Anche qua sulla Terra ci sono alcuni casi – in Cile, ad esempio – in cui le colate sono composte interamente di ossido di ferro, ovvero magnetite. Ci sono diverse ipotesi sulla formazione di queste colate e sul meccanismo di separazione del metallo dalla roccia. È quindi interessante mettere insieme questi due fluidi – quello roccioso e quello metallico – che hanno diversa composizione e viscosità, e vedere qual è la loro dinamica di flusso assieme».
Come si applica, quindi, a Psyche?
«Succede che la colata metallica si infila sotto quella rocciosa perché è più densa, la attraversa tutta, e poi schizza fuori sul fronte. Da questo momento, l’evoluzione del flusso metallico procede indipendentemente dalla colata di roccia. In questo modo, con un solo esperimento, possiamo ottenere due risultati e studiare due fenomeni distinti».
E cosa succede in quest’ultima fase?
«Si nota che il flusso metallico sul fronte invece di rimanere un corpo unico come il flusso di roccia si divide in tanti canalini, ci sono delle gocce che si separano, ha un rilievo molto più sottile, scorre più velocemente».
Nel caso in cui l’asteroide sia composto da metalli differenti, si comporterebbero in modo simile?
«Generalmente, direi di sì. O comunque, in modo molto più simile al ferro che alla roccia. Sicuramente possono esserci delle differenze, ma per fare degli esperimenti più mirati dovremo aspettare di conoscere la composizione esatta dell’asteroide. Questo comunque è uno studio pilota, ed è il primo del suo genere. Ci saranno poi molte altre cose da considerare per rifinire lo studio, oltre alla composizione. Ad esempio, il fatto che Psyche ha una gravità molto più bassa rispetto a quella terrestre (è un asteroide grande quanto la Svizzera), non ha un’atmosfera e ha una temperatura superficiale molto più bassa: tutte cose che possono influenzare moltissimo la dinamica della colata».
Quanto è probabile che su un corpo come Psyche ci siano fenomeni vulcanici?
«Attivi adesso, zero, perché è completamente raffreddato. Che ci fossero in passato, non lo sappiamo, dobbiamo andare là e scoprirlo. Penso comunque che la differenza più rilevante rispetto alla Terra sia la dimensione, oltre alla composizione. Il vulcanismo nasce dal calore residuo della formazione del pianeta, proveniente dagli impatti con asteroidi, dalla separazione del nucleo e dal decadimento di isotopi radioattivi. Quest’ultimo fattore possiamo trascurarlo in un asteroide metallico. Resta il calore residuo, che dev’essersi dissipato rapidamente considerando le dimensioni. Però, pensando che sia un corpo che si è raffreddato dall’esterno, formando una crosta superficiale mentre l’interno era ancora fuso, è probabile che si siano create le condizioni adatte».
Pensa che in futuro si dedicherà anche ad altri corpi esterni alla Terra, oltre a Psyche?
«Mi piacerebbe, sicuramente. Voglio continuare a occuparmi di ferrovulcanismo perché è un campo completamente nuovo: prima di questo lavoro ci sono solamente due studi pubblicati, per di più a livello teorico. La sento come un’idea mia, questa, e ci tengo a espanderla e approfondirla. Chissà quanti mondi potrebbero averlo ospitato. E poi, certamente non voglio abbandonare il vulcanismo terrestre. Quindi direi di sì: d’ora in poi ci saranno due filoni di ricerca paralleli».
Una curiosità. Prima ha parlato di mondi ghiacciati: come si può immaginare la lava in un corpo del genere?
«Ghiaccio e brine, sostanzialmente. In base a dove ci troviamo – Europa, Titano, eccetera – questi ghiacci hanno composizione diversa: possono essere ghiacci d’acqua, di anidride carbonica, idrocarburi o brine contenenti dei sali. Sono essi stessi a fondersi: la superficie è ghiacciata ma all’interno, proprio per via del calore residuo, possono essere fusi e possono esserci delle spinte tettoniche che fanno emergere questa componente e creano delle eruzioni. Abbiamo dei video da missioni della Nasa che testimoniano il criovulcanismo».
Letteralmente, cosa si vede?
«Sembra un geyser, sostanzialmente».
Ho notato che le piace molto muoversi e viaggiare. Quanto e come è cambiata la sua vita nell’ultimo anno?
«È cambiata moltissimo. Prima della pandemia ero su un aereo una volta al mese, a volte per fare esperimenti, più spesso per fare lavori di campagna – raccolta di materiale da vulcani attivi – per conferenze e collaborazioni. Durante la pandemia, stare lontano per diversi mesi dal laboratorio è stata dura. È stata comunque un’opportunità per sedermi e scrivere i risultati di esperimenti che stavano lì ad aspettare di essere pubblicati. A me piace moltissimo stare in laboratorio a fare esperimenti, ma poi c’è bisogno anche di scrivere e pubblicare i risultati».
L’inizio del nuovo lavoro negli Usa, durante questo periodo, come è stato?
«Qui le cose sono molto diverse. Sono già vaccinata, come un quarto della popolazione, e le cose stanno lentamente tornando alla normalità. Qua insegno e ho potuto cominciare a farlo in presenza, proprio ieri. È stata un’emozione conoscere di persona i miei studenti, a cui avevo solo insegnato in modalità online. È comunque un inizio un po’ sottotono, ho visto davvero poche persone da quando sono qui, la raccomandazione è comunque ancora quella di lavorare da casa. Sono comunque molto eccitata di essere qui perché è quello che ho voluto fare per tutta la vita – essere professoressa di vulcanologia in una università americana – per cui va bene così».
Sul lungo termine, quindi, si vede lì?
«Sì, assolutamente. Questo è il lavoro dei miei sogni».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Communications l’articolo “Imagining and constraining ferrovolcanic eruptions and landscapes through large-scale experiments”, di A. Soldati, J. A. Farrell, R. Wysocki e J. A. Karson
- Visita il sito di Arianna Soldati, Volcanic Arianna