Il primo miliardo di anni di storia dell’universo può essere descritto come un susseguirsi di periodi di buio e periodi di luce: in particolare, c’è stata una fase in cui è stato opaco alla radiazione, seguita da un’epoca in cui è diventato sempre più trasparente. È la cosiddetta epoca della reionizzazione: il periodo in cui il gas primordiale che pervadeva l’universo in fasce – costituito essenzialmente da atomi di idrogeno – inizia a passare dallo stato neutro allo stato di plasma ionizzato. È l’inizio della fine della precedente epoca di buio, l’età oscura, appunto, e il preludio della fase di luce in cui ci troviamo tutt’ora.
Durante l’epoca della reionizzazione, la massa dell’idrogeno neutro si è via via ridotta, permettendo così ai fotoni di muoversi sempre più liberamente, fino al punto in cui quasi tutto il gas cosmico è ionizzato e l’universo è completamente trasparente alla luce di stelle e galassie lontane. Come ciò sia avvenuto non è però del tutto chiaro. Non è chiara, soprattutto, l’origine dei fotoni ad alta energia che hanno convertito il gas opaco ed elettricamente neutro in plasma ionizzato. Evidenze indirette e studi teorici suggeriscono che si tratti dei fotoni emessi dalle stelle in formazione all’interno delle prime generazioni di galassie, che nel frattempo si erano formate dagli addensamenti di gas per effetto della gravità. In questa ipotesi c’è tuttavia un problema: le galassie contengo a loro volta nubi di idrogeno che assorbono luce, proprio come le nubi nell’atmosfera terrestre assorbono la luce solare in una giornata nuvolosa. Ciò avrebbe dovuto impedire ai fotoni di sfuggire – e dunque di ionizzare il gas intergalattico circostante.
Una possibilità per risolvere questo problema è quella di ipotizzare l’esistenza di una popolazione di galassie primordiali prive al loro interno di nubi di idrogeno. Sino a oggi, tuttavia, non è mai stata rilevata alcuna prova dell’esistenza di galassie simili. Sino a oggi, appunto. Utilizzando i dati del telescopio Gemini South, un team di astrofisici dell’Università del Minnesota pare infatti sia ora riuscito a trovarne una.
Il suo nome è Pox 186: una piccola galassia nana nella costellazione della Vergine, a circa 68 milioni di anni luce dalla Terra, in cui le nubi di idrogeno sembrano essere state completamente rimosse. Potrebbe dunque essere una galassia analoga a quelle presenti all’epoca della re-ionizzazione, la cui luce ad alta energia, non assorbita da alcun gas interno, avrebbe reionizzato il gas intergalattico.
Per saperne di più Media Inaf ha raggiunto una delle autrici della pubblicazione che riporta i dettagli della scoperta, l’astrofisica Claudia Scarlata. Nata a Cagliari, dopo la laurea in astronomia e il dottorato all’Università di Padova, lavora per diversi anni come postdoctoral scholar all’Eth di Zurigo e al Caltech. Nel 2011 diventa docente nella Scuola di fisica e astronomia dell’Università del Minnesota, dove è anche direttrice del corso di dottorato. Nel 2019 riceve dalla stessa Università il George W. Taylor Award for Distinguished Research.
Professoressa Scarlata, come è nata l’idea alla base del lavoro che ha portato a questa scoperta?
«Uno dei problemi principali dell’astrofisica moderna è capire come la maggior parte dell’idrogeno nell’universo sia passato da completamente neutro a ionizzato (una trasformazione che viene chiamata reionizzazione). Per ionizzare l’universo, è necessario che i fotoni più energetici di 13.6eV prodotti da stelle molto giovani siano in grado di raggiungere l’idrogeno del mezzo intergalattico, senza essere assorbiti dal gas e dalla polvere – tipicamente associati con le stelle più giovani. Il problema è identificare le galassie da cui questi fotoni “fuggono”. Pox 186 è una galassia molto piccola nell’universo locale, nota per non avere idrogeno neutro (o averne così poco che non è possibile misurarlo) e per il fatto che sta attivamente formando nuove stelle. Ci aspettavamo quindi che i fotoni ionizzanti avessero un’alta chance di uscire da Pox 186 e le osservazioni che avevamo pianificato avevano lo scopo di testare quest’idea».
Che tecnica d’indagine avete utilizzato?
«La spettroscopia a campo integrale, usando il telescopio da 8 metri Gemini insieme allo spettrografo Gmos. Questa tecnica osservativa permette di ottenere spettri in ogni posizione all’interno della galassia e quindi avere un’idea molto più dettagliata (rispetto a semplici immagini) delle condizioni fisiche del gas e delle stelle».
Perché vi siete concentrati proprio su questa galassia?
«Pox 186 è una galassia speciale per varie ragioni. Prima di tutto ha alcune caratteristiche fisiche che la rendono molto simile alle galassie che pensiamo fossero presenti nell’universo primordiale, durante la reionizzazione. Pox 186 però è molto vicina a noi (in quello che chiamiamo l’universo locale) e questo ci permette di eseguire delle misure che ancora non sono realisticamente possibili nelle galassie lontane (bisognerà aspettare fino a Jwst). In sostanza Pox 186 è un laboratorio perfetto per testare varie ipotesi sui processi fisici che possono condizionare la reionizzazione. Inoltre, come ho detto prima, Pox 186 è famosa per non avere idrogeno neutro, o averne così poco che non è possibile misurarlo. Questo fatto è importante perché tipicamente la formazione di nuove stelle è associata alla presenza di gas neutro e ad un sacco di polvere».
Quali sono i possibili meccanismi fisici che secondo voi hanno fatto sì che questa galassia si svuotasse del suo contenuto in gas, portandola in uno stato che chiamate blow-away?
«Qui vorrei citare le parole del mio studente, Nathan Eggen, primo autore dello studio. “Uno può immaginare che l’energia rilasciata in un episodio di formazione stellare spinga il gas di una galassia come in un palloncino che si gonfia. Se però la formazione stellare è troppo intensa, c’è la possibilità che la superficie del palloncino si fori, permettendo l’uscita di una porzione di quest’energia. Nel caso di Pox 186, la formazione stellare è stata così intensa da distruggere il palloncino completamente, e quindi il gas è stato rimosso completamente, blown-away. L’energia per questo processo è dunque associata al processo di formazione stellare. In particolare, all’energia associata con l’esplosione di stelle giovani e massive come supernove e con i venti stellari».
Quali conclusioni si possono trarre da questo studio?
«Quello che abbiamo scoperto è che in Pox186 una parte del gas si muove a velocità così alta che l’attrazione gravitazionale della galassia non è sufficiente a trattenerlo. Questo studio conferma che è possibile rimuovere completamente il gas dalle galassie piccole, attraverso meccanismi “puramente interni”, cioè associati unicamente alla galassia stessa e non a interazioni con l’ambiente. Questo tipo di feedback viene predetto da praticamente tutte le simulazioni numeriche moderne, ma non era ancora stato confermato sperimentalmente. Di conseguenza, il nostro studio suggerisce che le galassie molto giovani nell’universo lontano possono essere passate attraverso una fase in cui la mancanza di gas neutro ha permesso che la radiazione ionizzante fuggisse da questi oggetti, facilitando la reionizzazione».
Problema della reionizzazione risolto?
«Risolto no. Però certamente il nostro lavoro ci permette di capire meglio che tipo di galassie hanno contribuito in maniera considerevole al processo».
Come si potrebbe ottenere una conferma del coinvolgimento di questo tipo di galassie nella reionizzazione dell’universo?
«Da Terra, fino all’arrivo della prossima generazione di telescopi (come il telescopio europeo Extremely Large Telescope), sarà abbastanza difficile aumentare di molto quello che già sappiamo delle prime galassie. Diciamo che stiamo raggiungendo i limiti di quello che si può fare con la tecnologia che abbiamo. Fortunatamente alla fine dell’anno (in ottobre) verrà lanciato il James Webb Space Telescope, che rivoluzionerà la nostra conoscenza delle galassie nell’universo lontano».
Avete già in mente un “sequel” di questo studio?
«Stiamo ottenendo immagini e spettri di Pox 186 con l’Hubble Space Telescope. Il telescopio Hubble ci permette di osservare nell’ultravioletto, dove si trova la maggior parte dell’energia prodotta nelle giovani stelle. Questi dati ci permetteranno di capire meglio quello che succede nelle galassie vicine e quindi interpretare le osservazioni di galassie lontane che Jwst otterrà presto».
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “Blow-away in the Extreme Low-mass Starburst Galaxy Pox 186” di Nathan R. Eggen, Claudia Scarlata, Evan Skillman e Anne Jaskot