Gli astronomi sono un po’ archeologi, si dice spesso: più osservano lontano più si spingono indietro nel tempo. Ma gli astronomi sono anche un po’ demografi: studiano le popolazioni di stelle e osservano come vivono, come si distribuiscono, come si radunano. In piccole o grandi città – le galassie – dal centro brulicante d’attività, circondate talvolta da piccole città satelliti e con arterie di gas – i filamenti – che le collegano l’un l’altra. Le galassie, a loro volta, si radunano in strutture più grandi, le più grandi dell’universo: gli ammassi di galassie. Ed è per studiare le proprietà di questi ammassi che gli astronomi del progetto Chex-Mate hanno ottenuto, dal 2018, ben tre milioni di secondi di tempo osservativo con uno fra i migliori telescopi spaziali per raggi X, il satellite Xmm–Newton dell’Agenzia spaziale europea.
«Tre milioni di secondi che stiamo esaurendo in questi giorni; entro l’estate dovremmo finire tutte le osservazioni», dice a Media Inaf Stefano Ettori dell’Inaf Oas di Bologna, che insieme a Monique Arnaud del Cea del polo scientifico di Paris-Saclay, in Francia, è alla guida del team di circa ottanta astronomi (circa un quarto dei quali dell’Inaf, distribuiti tra le sedi di Bologna, Firenze, Milano, Trieste, Padova), da undici diversi stati, che partecipano al progetto. Con le osservazioni ormai al termine, i primi lavori sono in produzione. Tra questi un articolo in uscita su Astronomy & Astrophysics nel quale vengono descritte in dettaglio le caratteristiche demografiche – appunto – della popolazione di ammassi sotto osservazione.
Ettori, perché a voi astronomi interessano così tanto, gli ammassi?
«Anzitutto perché rappresentano le più grandi strutture che sono collassate nell’universo. Sono collassate sotto l’azione della gravità su scale dei megaparsec, ovvero dimensioni di qualche milione di anni luce. Lì l’azione della gravità manifesta tutta la sua efficacia nell’assemblare le strutture legate più estreme – ovvero più massicce – che le nostre teorie ci dicono che si possono formare. E rappresentando la popolazione “estrema” sono “estremamente” sensibili agli ingredienti iniziali che descrivono queste teorie. In altre parole, se la massa totale fosse stata diversa, o se l’espansione dell’universo dovuta alla dark energy fosse stata rallentata o fosse avvenuta in tempi differenti, questo avrebbe alterato l’equilibrio tra la massa che collassa e l’universo che si espande, producendo, ad esempio, un numero diverso di ammassi di galassie. Ecco dunque che già il semplice contare questi ammassi offre informazioni dirette su quali sono gli ingredienti fondamentali dell’universo e sulle loro “dosi”: quanta materia barionica (cioè gas e stelle), quanta materia oscura, e quanta energia oscura».
Dunque contando quanti sono riuscite a ricostruire com’è fatto l’universo?
«Com’è fatto e quali erano le sue condizioni iniziali, quando ha iniziato a evolversi e a formare strutture. Ma c’è di più: essendo le strutture più grandi, gli ammassi sono facili da individuare. Non solo: essendo relativamente rari – molto rari rispetto alle galassie – è molto più semplice contare gli ammassi che contare le singole galassie che ci sono nell’universo. E contandoli, facendo un po’ di statistica sulla loro distribuzione nel cielo e su quanti se ne sono formati a diverse masse, possiamo risalire alle condizioni iniziali dell’universo nel momento in cui è entrata in azione la legge che regola la formazione di queste strutture».
È un po’ come quello che fanno i cosmologi quando vanno a contare e a misurare le dimensioni dei puntini della mappa della Cmb, la radiazione del fondo cosmico a microonde?
«Esattamente. D’altronde, i “puntini” della Cmb sono fluttuazioni, nell’ordine di qualche decina di microkelvin, rispetto alla temperatura media di 2.7 kelvin. Alcuni di questi puntini, tra quelli meglio definiti, sono ammassi di galassie, che possono talvolta apparire legati tra loro in strutture ancora più grandi, dette superammassi, che ci si aspetta collasseranno in un futuro lontano. Ma al momento presente, fra le strutture che hanno l’energia al proprio interno distribuita in modo equilibrato, le più grandi sono gli ammassi di galassie. È questo il motivo per cui sono importanti da studiare. Non solo: una volta formati, sono come dei piccoli universi».
In che senso?
«Essendosi isolati dall’espansione dell’universo, hanno fatto casa a sé. Se equiparassimo le galassie alle città, gli ammassi sarebbero gli stati. Diventa quindi interessante studiare come uno stato si autogoverna – e non tutti gli stati sono uguali. È un po’ questo il senso di Chex-Mate: in pratica è un campione “demografico”. Abbiamo ricostruito la geografia degli ammassi e siamo andati a campionare la popolazione dei vari “stati” – cosa che in maniera così omogenea non era mai stata fatta».
E lo avete fatto, vedo, osservandone l’emissione di raggi X. In che modo gli ammassi generano raggi X?
«Quel che accade è che nel plasma ionizzato – dunque con elettroni e protoni separati fra loro – quando un elettrone passa accanto a un protone la sua traiettoria viene deflessa e la sua velocità rallentata, dando così origine al fenomeno di bremsstrahlung, o radiazione di frenamento. Se l’energia degli elettroni è sufficientemente alta, com’è nel caso della materia barionica che cade negli ammassi – questa radiazione viene emessa in banda X. Quello che vediamo, quindi, è il plasma caldo, a temperature nell’ordine di 100 milioni di gradi. Dal tracciamento di questo gas caldo sappiamo ricostruire la temperatura del plasma e quindi la buca di potenziale dell’ammasso – vale a dire, quanto è “profondo”. E quindi la sua massa».
Fino a che massa può arrivare, un ammasso?
«Diciamo che se individuassimo degli ammassi maggiori di due milioni di miliardi di masse solari avremmo dei problemi. Le nostre teorie non contemplano la formazione di ammassi di qualunque grandezza. Considerando la massa e il tempo che c’è stato a disposizione – il tempo cosmico, intendo – per l’evoluzione di queste strutture, non possiamo arrivare ad ammassi più grandi di due milioni di miliardi di masse solari. Quelle più grandi presenti nel nostro campione arrivano a un milione e seicento miliardi, a un milione e otto cento miliardi… Insomma, abbiamo ammassi che sono vicini al confine».
Veniamo al vostro progetto, Chex-Mate. Di ammassi ne avete scelti 118. Perché proprio quelli?
«La selezione l’abbiamo fatta usando i dati raccolti dal telescopio spaziale Planck, in particolare i cataloghi di oggetti selezionati per il loro segnale Sunyaev-Zel’dovich. Questo è un effetto dovuto al moto dei fotoni della Cmb in un campo gravitazionale con elettroni ad alta energia, quale quello degli ammassi. Più questo segnale è forte, più gli elettroni hanno energia e l’ammasso ha una massa attesa alta. Selezionare un campione tramite questo effetto corrisponde quasi a compiere una selezione sulla massa, quindi ciò che otteniamo è un campione rappresentativo non delle proprietà appariscenti ma delle proprietà intrinseche degli ammassi. Su qualche migliaio di ammassi presenti nelle mappe del segnale Sunyaev-Zel’dovich di Planck, abbiamo selezionato i 118 con il miglior rapporto fra segnale e rumore e che fossero distribuiti nel tempo cosmico con una massa attesa utile per lo studio della loro “demografia”. E per tutti questi ammassi abbiamo ottenuto, grazie ai tre milioni di secondi di tempo d’osservazione con Xmm-Netwon assegnati al nostro progetto, esposizioni in banda X profonde e omogenee».
Vale a dire? Li avete osservati tutti e 118 per lo stesso tempo?
«No, al contrario, è come con una macchina fotografica: essendo oggetti a redshift diverso, dunque a distanze diverse, per ottenere esposizioni omogenee occorre osservare ciascuno di essi per il tempo richiesto – quelli più lontani richiedono esposizioni più lunghe, a parità di massa – così da poter poi confrontare i segnali ottenuti. Ed è ciò che abbiamo fatto in questi anni».
L’acronimo del vostro progetto, Chex-Mate, allude al gioco degli scacchi, e in particolare allo scacco matto. Qual è la partita che state giocando?
«La partita riguarda un grande problema rimasto inevaso, soprattutto dopo aver visto i dati ottenuti dal satellite Planck. Le osservazioni di Planck ci hanno permesso di misurare la radiazione del fondo cosmico e, da questa, di arrivare a stime dei parametri cosmologici molto accurate – nell’ordine del per cento: risultati fantastici. Le stesse stime si possono fare a partire dagli ammassi di galassie. Gli scienziati della comunità Planck ci hanno provato, ma si sono accorti che la massa degli ammassi ottenuta attraverso osservazioni in X rendeva conto di solo il 60 per cento della massa totale, se si volevano riprodurre i risultati ottenuti dalla radiazione del fondo cosmico. Quindi noi ci siamo detti: bene, selezioniamo un campione attraverso l’effetto Sunyaev-Zel’dovich e andiamo a vedere in dettaglio – in maniera omogenea, con i dati X ma anche con il lensing gravitazionale in banda ottica – qual è il contributo esatto dei raggi X alla massa attuale».
C’è qualche motivo per cui potrebbe essere un contributo solo parziale?
«Sì, la sottostima in X potrebbe essere dovuta al cosiddetto hydrostatic bias, vale a dire la presenza di una componente di energia cinetica che non riusciamo a tracciare bene. Affinché la stima della massa attraverso la misura della radiazione X sia affidabile, tutta l’energia cinetica della materia che cade nella buca di potenziale dev’essere trasformata in energia termica. Ma se i barioni continuano a cadere verso la buca di potenziale ecco che c’è del moto residuo, e questo non riusciamo a misurarlo dalle osservazioni X – almeno non con gli strumenti attuali, avremo bisogno del futuro telescopio spaziale dell’Esa Athena per riuscirci. Insomma, il sospetto è che, attraverso le misure X, stiamo sottostimando la massa degli ammassi. Osservazioni dedicate su un campione omogeneo, come quella che stiamo facendo, ci consentiranno di misurare questa discrepanza – la differenza fra la massa misurata osservando le proprietà X e la massa, invece, misurata attraverso il lensing gravitazionale. Dando così “scacco matto” al problema del bias nella stima di massa. Ma nello stesso tempo vorremmo anche arrivare a una parola definitiva – prima della prossima generazione di strumenti per la misura e caratterizzazione dei raggi X – su quanto davvero possiamo conoscere del plasma che emette raggi X e che contiene il grosso della materia barionica».
Per saperne di più:
- Vai al sito del progetto Chex-Mate
- Leggi su Astronomy & Astrophysics l’articolo “The Cluster HEritage project with XMM-Newton: Mass Assembly and Thermodynamics at the Endpoint of structure formation. I. Programme overview”, di M. Arnaud, S. Ettori, G.W. Pratt, M. Rossetti, D. Eckert, F. Gastaldello, R. Gavazzi, S.T. Kay, L. Lovisari, B.J. Maughan, E. Pointecouteau, M. Sereno, I. Bartalucci, A. Bonafede, H. Bourdin, R. Cassano, R.T. Duffy, A. Iqbal, S. Maurogordato, E. Rasia, J. Sayers, F. Andrade-Santos, H. Aussel, D.J. Barnes, R. Barrena, S. Borgani, S. Burkutean, N. Clerc, P.-S. Corasaniti, J.-C. Cuillandre, S. De Grandi, M. De Petris, K. Dolag, M. Donahue, A. Ferragamo, M. Gaspari, S. Ghizzardi, M. Gitti, C.P. Haines, M. Jauzac, M. Johnston-Hollitt, C. Jones, F. Kéruzoré, A.M.C. Le Brun, F. Mayet, P. Mazzotta, J.-B. Melin, S. Molendi, M. Nonino, N. Okabe, S. Paltani, L. Perotto, S. Pires, M. Radovich, J.-A. Rubino-Martin, L. Salvati, A. Saro, B. Sartoris, G. Schellenberger, A. Streblyanska, P. Tarrio, P. Tozzi, K. Umetsu, R.F.J. van der Burg, F. Vazza, T. Venturi, G. Yepes e S. Zarattini