BASATO SU UN CAMPIONE DI 167 NUCLEI GALATTICI ATTIVI

Buchi neri supermassicci come quelli stellari

Un nuovo studio indica che i buchi neri supermassicci al centro delle galassie attive non si comportano in modo troppo dissimile rispetto ai loro analoghi di massa stellare nelle binarie a raggi X, almeno per quanto riguarda le modalità di accrescimento della materia circostante e l'emissione che ne consegue. Abbiamo intervistato uno dei due co-autori, Juan Fernández Ontiveros dell'Inaf di Roma

     09/06/2021

Rappresentazione artistica del buco nero di massa stellare Cygnus X-1. Crediti: Nasa

I buchi neri noti nell’universo si presentano principalmente in due classi, con masse estremamente diverse tra loro. Da un lato ci sono i “pesi piuma”, ovvero i buchi neri di massa stellare – parliamo di diverse volte la massa del Sole. Alcuni di questi si trovano in sistemi binari, in cui il buco nero orbita insieme a una stella a cui sottraggono regolarmente gas per far crescere la propria massa, che sono chiamati ‘binarie a raggi X’ poiché questo processo dà luogo a una forte emissione nei raggi X.

Dall’altro lato invece troviamo i pesi massimi, i buchi neri supermassicci, con masse pari a milioni o addirittura miliardi di volte quella del Sole. Questi giganti vivono al centro delle grosse galassie, sono generalmente in stato dormiente ma quando si “attivano” iniziano a divorare il gas circostante a ritmo sostenuto e di conseguenza emettono radiazione su tutto lo spettro elettromagnetico, dando origine a quelli che gli astronomi chiamano nuclei galattici attivi (Agn).

Mentre i processi di accrescimento dei buchi neri di massa stellare sono ben noti, quelli delle loro controparti supermassicce lo sono meno, rendendo difficile un’analisi comparata dei meccanismi fisici in atto nei due tipi di sistemi. Un nuovo approccio al problema arriva dalla collaborazione tra Teo Muñoz Darias dell’Istituto di Astrofisica delle Canarie (Iac), che si occupa di binarie X, e Juan A. Fernández Ontiveros dell’Inaf, esperto di galassie attive e buchi neri supermassicci, i cui risultati sono apparsi recentemente sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society.

Il ricercatore Juan Antonio Fernández Ontiveros davanti al Nordic Optical Telescope (Not) sull’isola di La Palma.

In questo studio, i due ricercatori spagnoli hanno passato in rassegna 167 galassie attive, per cercare somiglianze tra le modalità di accrescimento dei buchi neri supermassicci al loro centro e quelle dei loro analoghi di massa stellare nelle binarie X. Per saperne di più, Media Inaf ha intervistato Juan A. Fernández Ontiveros. Originario di Granada, ha studiato fisica all’Università di Granada e astrofisica all’Università di La Laguna a Tenerife, Isole Canarie, dove ha conseguito un dottorato sul tema degli Agn, seguito da post-doc all’istituto Max Planck di Radioastronomia a Bonn, all’Iac, all’Università di Atene e all’Inaf Iaps di Roma.

Dottor Fernández Ontiveros, com’è nato questo studio?

«È una collaborazione con un amico di lunga data, Teo Muñoz Darias. Abbiamo fatto il dottorato insieme a La Laguna: lui lavora sulle binarie a raggi X, che sono sistemi che hanno un buco nero di massa stellare, quindi piccolo, con una stella compagna che trasferisce materiale sull’oggetto compatto. Io invece lavoro su buchi neri supermassicci al centro delle galassie».

Cosa hanno di diverso questi due tipi di sistemi?

«Le binarie X sono state scoperte come esplosioni in raggi X, e dal punto di vista dell’accrescimento sono i sistemi che conosciamo meglio perché evolvono su scale temporali umane. Passano la maggior parte della loro vita in uno stato ‘tranquillo’ nel quale la stella compagna trasferisce materiale che si accumula nel disco di accrescimento intorno al buco nero. A un certo punto il disco diventa instabile e inizia un periodo di attività che dura mesi o anni, durante il quale questi sistemi diventano molto brillanti in raggi X, e infine svaniscono tornando allo stato iniziale. I buchi neri supermassicci al centro delle galassie, invece, hanno tempi di evoluzione molto più lunghi, dell’ordine di milioni di anni, quindi non possiamo seguire la loro evoluzione a livello individuale».

Si tratta di tempistiche decisamente molto diverse… come avete aggirato questo problema?

«Abbiamo preso un campione di dati abbastanza grande statisticamente, quasi 170 galassie osservate con spettroscopia infrarossa, e con questa statistica abbiamo identificato diversi stati di accrescimento nei buchi neri supermassicci. Non possiamo seguirne uno durante la sua evoluzione, ma possiamo identificarne diversi che sono in diversi stati».

Come si fa dal punto di vista pratico a osservare il gas in caduta sui buchi neri?

«Il disco di accrescimento [attraverso cui il gas cade sul buco nero, ndr] nelle binarie X emette nei raggi X e quindi possiamo misurare questa emissione direttamente. Nel caso degli Agn, l’emissione del disco è principalmente nell’ultravioletto ma viene assorbita molto dall’idrogeno nella galassia ospite dell’Agn – e anche nella nostra galassia, la Via Lattea – quindi non la possiamo recuperare nella maggioranza dei casi. La tecnica che abbiamo usato però permette di fare questo: il gas intorno al buco nero assorbe la radiazione ultravioletta e la processa in righe di emissione [una riga di emissione corrisponde a luce emessa da atomi, ioni o molecole in una frequenza precisa, ndr] e noi abbiamo misurato queste righe».

Quali righe avete osservato?

«Le righe associate ai differenti elementi chimici e ai loro ioni sono eccitate da radiazione proveniente da diverse parti dello spettro elettromagnetico: se osservi alcune di queste righe puoi ricostruire la forma dello spettro originale prima che fosse assorbito. Noi abbiamo usato le righe dell’ossigeno e del neon nelle frequenze dell’infrarosso medio, usando i dati del satellite Spitzer».

E cosa avete trovato?

«Abbiamo usato le righe per individuare la presenza o assenza del disco di accrescimento nei vari Agn, e abbiamo costruito un diagramma per identificare i diversi stati di accrescimento».

Ci può spiegare cosa vediamo nel diagramma?

Diagramma che mostra i due diversi stati di accrescimento per buchi neri supermassicci a seconda delle loro caratteristiche (cliccare per ingrandire). Crediti: Teo Muñoz Darias/Juan A. Fernández Ontiveros

«Il diagramma che abbiamo costruito si chiama Led: luminosity-excitation diagram. Mostra la luminosità del sistema rispetto alla luminosità del disco. L’asse orizzontale ci dice l’importanza del disco, l’asse verticale la luminosità totale del nucleo attivo; quest’ultima, normalizzata rispetto alla massa del buco nero, è vincolata allo stato di accrescimento del sistema. Gli stati di accrescimento principali sono due: uno luminoso, in alto a sinistra, dominato dal disco, e l’altro verso destra, in cui il disco è debole e domina l’emissione da parte del getto e della corona intorno al buco nero. Si chiamano rispettivamente stato soft il primo e stato hard il secondo, i nomi vengono dalla forma dello spettro ai raggi X nelle binarie X».

Siete rimasti sorpresi da questo risultato?

«Tradizionalmente la fisica dell’accrescimento è stata sviluppata per spiegare il comportamento delle binarie X, che si conoscono bene perché cambiano frequentemente e si può studiare la loro evoluzione. Negli Agn, il disco di accrescimento potrebbe avere proprietà fisiche diverse, dovrebbe essere molto più freddo rispetto a quello delle binarie X, e questo vuol dire che potrebbe non essere dominato dalla pressione del gas ma dalla pressione di radiazione e del campo magnetico. Nonostante le differenze, questo diagramma dice ai teorici che sembra ci siano degli stati molto simili nei buchi neri lungo tutto l’intervallo di massa: sicuramente ci sono particolarità specifiche, però l’evoluzione generale sembra molto simile».

È la prima volta che si riescono a identificare i diversi stati di accrescimento negli Agn?

«Non è la primissima volta ma secondo noi questo è il risultato più chiaro perché abbiamo risolto delle sistematiche presenti nei tentativi precedenti. Il nostro diagramma è quello che assomiglia di più a quello delle binarie X, dove i sistemi descrivono una traiettoria a forma di ‘q’. Nel 2006, per esempio, Körding e collaboratori avevano fatto un lavoro simile ma senza normalizzare la luminosità del sistema per la massa del buco nero, perché non avevano queste stime di massa. Quindi nel loro studio c’era una dispersione di un fattore 100-1000 nell’asse verticale. Con questo rumore non si può vedere bene la forma a ‘q’ che invece si percepisce nel nostro diagramma».

Che cosa avete dedotto sulla fisica di questi sistemi da questa analisi?

«Il fatto che il getto domina l’emissione radio durante lo stato hard si vede molto bene nelle binarie X. Vedere lo stesso fenomeno negli Agn – nel diagramma è la regione con i puntini neri, dove l’emissione del getto è forte – rafforza molto il parallelismo».

Nel diagramma ci sono delle regioni colorate in maniera diversa. Che cosa rappresentano?

«Le regioni colorate in rosso, verde e azzurro indicano i diversi tipi di galassie attive secondo la classificazione classica, sulla base delle proprietà del loro spettro ottico. La differenza tra Seyfert 1 (in rosso) e Seyfert 2 (in verde) è stata interpretata tradizionalmente come una differenza nell’orientamento del sistema rispetto a noi. I Liner (in azzurro) sono nuclei attivi tipicamente più deboli che si trovano abitualmente in galassie più vecchie. Ma c’è una classe di galassie attive scoperta relativamente recentemente che sono i ‘changing-look Agn’: sono galassie attive che cambiano da un tipo all’altro, e la loro luminosità può anche cambiare molto. Potrebbero essere sistemi in transizione, e sarebbe molto interessante capire come si spostano nel diagramma quando cambiano le proprietà dello spettro, perché sono sistemi che potrebbero essere in transizione tra uno stato di accrescimento e l’altro».

Che cosa hanno di speciale questi changing-look Agn?

«Sono molto rari, devi osservarne tanti per trovarne uno, mentre nelle binarie la variabilità in luminosità è una caratteristica comune. Sono galassie dove si vedono cambi che potrebbero indicare cambi nel disco, nella regione centrale. Sicuramente c’è un sacco di fisica da imparare in questi sistemi. Prima non se ne conoscevano tante perché sono eventi rari, ma adesso ci sono survey che mappano il cielo tutti i giorni e si sta scoprendo che questi changing-look Agn sono un fenomeno più frequente di quello che si pensava».

Questo diagramma mostra come cambia l’intensità delle righe di emissione dell’ossigeno e del neon (grafici a sinistra) nelle lunghezze d’onda dell’infrarosso medio per un buco nero supermassiccio nel caso di accrescimento ‘soft’ (in alto) in cui domina l’emissione del disco, e nel caso ‘hard’ (in basso) in cui domina l’emissione del getto. A destra, si vede una sezione del disco di accrescimento e la sua emissione a diverse lunghezze d’onda (rappresentato con una sequenza di colori), con il buco nero al centro e una parte della ciambella di polvere ai lati (in rosso). Il telescopio raffigurato nel diagramma è Jwst (cliccare per ingrandire). Crediti: Teo Muñoz Darias/Juan A. Fernández Ontiveros

Come proseguirà il vostro studio?

«I dati vengono da Spitzer, che ora non è più operativo. Il prossimo telescopio a poter osservare le stesse righe nell’infrarosso sarà James Webb space telescope (Jwst). Parte di questo lavoro è iniziato per preparare la scienza della missione Spica, insieme al Prof. Luigi Spinoglio qui all’Iaps, che poi è stata cancellata molto drasticamente dall’Esa. Anche la nostra proposta di osservazione recentemente accettata per Jwst deriva dal lavoro fatto per Spica che quindi non è morta per niente, ha dato origine a tanta scienza».

Cosa pensate di fare esattamente con Jwst?

«Jwst vedrà le righe che usiamo per costruire questo diagramma con una risoluzione molto maggiore. Quindi ci aspettiamo che quando Jwst parte e comincia a misurare una quantità statisticamente rappresentativa di queste galassie attive, potremo usare queste e altre righe ancora più deboli per capire meglio dove sono gli Agn in questo diagramma. Un’altra possibilità è quella di usare Euclid per fare una cosa simile, ma nell’ottico».

Perché proprio Euclid?

«Il diagramma che abbiamo realizzato adesso è per le galassie dell’universo locale. Euclid potrà fare questo per l’epoca in cui le galassie erano in formazione, 10 miliardi di anni fa. Sicuramente non è una cosa difficile da fare, bisogna identificare le righe che Euclid vedrà in quelle galassie. Se riusciamo ad adattare la nostra metodologia per usare le righe dell’ottico, ne avremo molte di più. E non c’è solo Euclid ma anche la Sloan Digital Sky Survey da terra e poi ci sarà il Roman space telescope: molte delle missioni future faranno la mappa di galassie su tutto il cielo, questa quantità di informazioni per noi è estremamente utile».

Che cosa si può imparare di nuovo con un campione di galassie più vasto?

«Il campione attuale ha 167 galassie. Se aumenta la statistica si possono definire meglio le regioni. Per ora abbiamo diviso gli Agn in 4 tipi, ma se hai una statistica di centinaia di migliaia di galassie puoi studiare le dipendenze da altri parametri come la massa del buco nero, il tipo di galassia, etc. Nella famiglia delle galassie attive c’è una tassonomia gigantesca, e così si potranno evidenziare alcune classi con proprietà speciali per capire cosa succede di diverso».

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