Usare la fantasia per “riciclare” uno strumento e adattarlo a un uso non programmato. È una pratica che sta prendendo piede in diversi ambiti, per dare nuova vita agli oggetti e limitare gli sprechi, e potrebbe essere un esercizio interessante per tutti. L’hanno fatto – con uno scopo un po’ diverso ma ugualmente con successo – gli autori di un articolo uscito ieri su Mnras: riadattando il telescopio Kepler per riuscire a cogliere un sottile effetto relativistico chiamato microlensing, hanno scoperto una popolazione di pianeti fluttuanti nello spazio. Quattro di essi avrebbero masse simili a quella della Terra.
I pianeti fluttuanti possono essere ciò che rimane di sistemi planetari distrutti o delle cosiddette stelle “fallite” – troppo leggere per innescare reazioni di fusione nucleare al loro interno. Fra questi, solo i pianeti molto giovani e più massicci sono abbastanza luminosi da essere rilevati direttamente, mentre l’identificazione di quelli più piccoli si basa sul microlensing gravitazionale – un fenomeno relativistico che si verifica, per esempio, quando un pianeta attraversa la linea di vista che collega un osservatore e una stella sullo sfondo: la luce della stella appare temporaneamente più intensa – un picco che può durare da poche ore a qualche giorno. In ogni momento, nella nostra galassia, circa una stella su un milione è visibilmente sottoposta a microlensing, ma solo in una piccola percentuale di casi il fenomeno è causato da pianeti. Secondo la teoria, l’aumento di luminosità segue una scala temporale caratteristica che dipende dalla massa dell’oggetto che fa da lente, dalla distanza fra osservatore, lente e sorgente e dalla velocità relativa fra la sorgente e la lente. Per osservare questo fenomeno, poiché generalmente velocità relativa e distanze sono sconosciute, ci si basa unicamente sul tempo caratteristico di aumento della luminosità. Nel caso di pianeti flottanti, si cercano eventi di microlensing molto brevi.
Le osservazioni condotte in questo studio facevano parte della seconda fase (K2) della missione del telescopio spaziale Kepler, e sono state condotte da aprile a luglio 2016. In questi due mesi, Kepler ha monitorato un campo affollato di milioni di stelle vicino al centro della nostra galassia (il bulge), osservando ogni 30 minuti attraverso una regione relativamente povera di polveri chiamata Baade’s Window.
«Questi segnali sono estremamente difficili da trovare. Le nostre osservazioni hanno puntato un telescopio anziano e malandato, con la vista offuscata, su una delle parti più densamente affollate del cielo, dove ci sono già migliaia di stelle luminose che variano in luminosità, e migliaia di asteroidi che sfiorano il nostro campo», spiega Iain McDonald, ricercatore dell’università di Manchester e primo autore dello studio. «Abbiamo cercato di estrarre dal rumore le minuscole variazioni in luminosità causate dai pianeti, avendo un’unica possibilità di vedere un segnale prima che sparisse».
Grazie a nuove tecniche di analisi e riduzione dei dati – Kepler non era stato progettato per osservare campi stellari così densi, né per trovare pianeti con questa tecnica – i ricercatori hanno individuato 27 segnali di microlensing di breve durata che variavano su scale di tempo tra un’ora e dieci giorni. Fra questi, 22 erano già stati visti in precedenza da grandi campagne osservative da terra, e sono stati confermati dal telescopio spaziale. I cinque rimanenti sono invece nuove scoperte e i quattro eventi più brevi mostrano un segnale coerente con pianeti di massa simile alla Terra.
I nuovi trovati, poi, non sono accompagnati da un segnale più lungo che avrebbe luogo se essi fossero legati a una stella ospite, il che depone a favore dell’ipotesi che siano anch’essi pianeti vagabondi. Gli autori ipotizzano che si siano originariamente formati intorno a una stella prima di essere espulsi a causa dell’interazione gravitazionale con altri pianeti più pesanti nel sistema.
«Kepler è riuscito in ciò che non è mai stato progettato per fare, fornendo ulteriori prove dell’esistenza di una popolazione di pianeti di massa terrestre che galleggiano liberamente», commenta Eamonn Kerins, ricercatore dell’Università di Manchester e coautore dello studio. «Ora Kepler passa il testimone ad altre missioni che saranno progettate per trovare tali segnali, così elusivi che lo stesso Einstein riteneva improbabile che venissero mai osservati. Sono entusiasta del fatto che la prossima missione Euclid dell’Esa possa unirsi a questo sforzo come attività scientifica aggiuntiva alla sua missione principale».
Guarda sul canale della Royal Astronomical Society una simulazione del microlensing: