Nel leggere Lettere dalla fine del mondo (Massimiliano Parente e Giorgio Vallortigara, La nave di Teseo, 2021) – libro in forma di epistolario e in perfetto stile lockdown, quindi tutto giocato sul fitto scambio tra i due autori costruito tramite e-mail – non ho potuto fare a meno di attuare un raffronto con un altro del tutto analogo: Dialogo (Primo Levi e Tullio Regge, Einaudi, 1984), oramai un classico pubblicato ben trentasette anni fa.
Questo mio articolo in qualche modo vuole quindi essere non solo l’espressione del modo usuale di avvertire circa cosa c’è di nuovo in libreria, ma anche una “meno-recenTione”: una retrospettiva su un libro che penso valga comunque la pena recuperare. Detto per inciso, mi piacerebbe che questa fosse anche l’occasione per iniziare una rubrica dedicata proprio al donare nuova vita a testi che recenti non sono ma che, belli o brutti, discutibili o condivisibili, ancora attuali o superati, hanno comunque meritato in passato una certa attenzione e che tutt’ora possono beneficiare di una seconda opportunità, non fosse altro che per la loro potenziale utilità nel mostrarci quanta strada la scienza e la sua divulgazione hanno fatto dal tempo della loro prima apparizione.
I due libri, quello di Regge-Levi e questo di Parente-Vallortigara, si assomigliano così tanto per piglio, ispirazione e “risultati” da confessarvi di essere stato tentato per un momento di spacciare furbescamente per mia recensione l’introduzione al primo, oramai da tempo fuori catalogo, scritta a suo tempo dal curatore Ernesto Ferrero. Avrei anche potuto farla franca, ma purtroppo, in un rigurgito di onestà, ho desistito dal mio intento criminoso e, piuttosto che plagiare, ho optato per citare interi brani di quel bel pezzo introduttivo che mescolerò a questo mio articolo in un mélange spero gradevole.
Iniziamo col dire che il libro di Parente e Vallortigara, scrittore il primo, neuroscienziato il secondo, è capace di dare una vera e propria vertigine: i temi toccati sono tantissimi e hanno a che fare con molte delle domande tipiche del nostro tempo. Una “denuncia della realtà” nei suoi intrecci tra scienza, percezione, arte, costume, … affrontata sempre col piglio di chi si pone domande fondamentali tese a scovare con l’attenzione del ricercatore ciò che, agitandosi dal basso, genera ciò che sta in alto e appare ai nostri occhi. Spesso innescati dalla inquieta scintilla dell’onnivoro Parente il quale, come esplicitato nel sottotitolo, dimostra in modo chiaro di amare la scienza e di volere in qualche modo apparire un paladino della sua traduzione umanistica, da quelle pagine vengono sparati fuori argomenti in apparenza random e capaci di far sembrare questo volume un fucile da caccia che vomita pallini in una disordinata rosa di direzioni e provocazioni; poi, sempre seguendo una sua chiara tendenza, quella rosa di traiettorie si chiude e si riordina per colpire più di frequente alcuni temi particolari, sue vere ossessioni, che periodicamente ritornano nel corso del testo: la società che arranca dietro alla scienza, incapace com’è di lasciare andare zavorre di irrazionalità e terzo interlocutore muto di un dialogo avente quindi tutte le caratteristiche di un “trialogo” del tutto simile a quelli ben più famosi di Galilei e Bruno; i rapporti tra i sessi; l’istinto di conservazione; la morte; il sovrannaturale; il concetto di Dio. Alla veemente condanna del letterato per alcuni atteggiamenti discutibili che affliggono questo inizio millennio fanno eco, quasi si tratti di barre moderatrici di grafite di un discorso-reattore a tratti molto energetico, le risposte del neuroscienziato: di sicuro più posato del primo e tendente all’osservazione curiosa e condiscendente, quasi da etologo, del comportamento umano, regala vere perle di poesia scientifica come, ad esempio, la seguente: “Il punto di incontro, secondo me, sta lì, nello iato tra la descrizione fisica del mondo e la nostra esperienza del mondo, che poi è la base per edificare la conoscenza […]”.
Insomma, ci ritroviamo di fronte al tipico duo poliziotto buono – poliziotto cattivo di molti film di successo e, se i personaggi di quelle pellicole avevano come obiettivo fare confessare delitti ai delinquenti, loro due, Parente e Vallortigara, denunciano il chiaro intento di far meditare i “mal-viventi” lettori srotolando davanti ai loro occhi tutto il repertorio di problemi tipici che noi appassionati di scienza, malati di spiegazioni ultime, abbiamo almeno per una volta sperato di poter abbracciare in una visione globale e coerente.
Nel caso di Lettere dalla fine del mondo, forse proprio grazie alla scelta obbligata del dialogo via mail, il testo risulta molto più equilibrato di quanto non fosse quello del Dialogo tra Regge e Levi che, avendo a quel tempo i due parlato per un paio d’ore davanti a un oggetto antidiluviano come un registratore a nastro, appare del tutto sbilanciato a favore del debordante e autoreferenziale Regge con un Levi che invece arretra di fronte a tanta vanitosa veemenza (da un certo momento in poi, il chimico-scrittore prenderà su di sé il semplice e ingrato compito di fare domande delle quali si ha spesso l’impressione che conosca già le risposte, assecondando così l’irrefrenabile bisogno di raccontarsi del suo geniale ed egotico interlocutore).
Uno sbilanciamento che notò anche il curatore di quel vecchio libretto il quale a un certo punto sentì di dover precisare – forse per tentare di salvare, almeno in apparenza, l’idea originale da cui quel progetto editoriale era scaturito –: “Lungi da me il voler suggerire l’idea di un Levi comprimario o, peggio, spalla del grande fisico. È un fatto, però, che le meraviglie della fisica odierna e le vertigini delle considerazioni che ispirano Regge esplodono nelle paginette di questo dialogo in un crescendo che Primo Levi avverte, anzi, aiuta potentemente a detonare. Essi sono coautori, a pari titolo, dell’innesco di una supernova, la cui carica elementare proviene dalla fisica e questo è, appunto, un fatto”.
A parere di chi scrive, oltre a una innegabile preminenza della fisica sulle altre scienze tipica di buona parte del secolo breve, l’incontro tra Regge e il grande chimico-scrittore, famoso anche per essere sopravvissuto alla follia dei campi di sterminio nazisti, misero in evidenza una tipica, intelligente, informata arroganza ancora frequente in molte situazioni in cui a parlare vi è un fisico (si vedano, a tal proposito, pure i libri-dialogo di Carlo Bernardini): una figura (per fortuna?) assente in queste recentissime Lettere dalla fine del mondo. Insomma, l’impressione forte è che chiunque venga toccato, a qualche livello, dal sacro fuoco della fisica risulti subito investito da una scarica ad alto voltaggio di informatissima supponenza, quasi che l’avere capito il pensiero di Schrödinger sia un’esperienza in grado di regalare la piacevole sensazione di poter parlare di tutto, arte, enologia, società, medicina, …, senza aver studiato null’altro che quelle formule così sapide da cui tutto, ma proprio tutto-tutto, pare possa essere dedotto e senza mai avere il timore di dire cose banali o senza molto senso.
In Lettere dalla fine del mondo, oltre alla partecipazione cauta, divertita, misurata, adulta, informata e giudiziosa di un grande neuroscienziato – presenza che già di suo mostra come siano cambiati in quest’ultimo quasi quarantennio gli equilibri reciproci tra le discipline scientifiche e l’importanza che rivestono anche altri ambiti di indagine nella società odierna – troviamo un giovane scrittore il quale, “poliziotto cattivo”, attentissimo divoratore di divulgazione scientifica e prosecutore agguerrito delle istanze di C.P. Snow, veste i panni del difensore senza macchia della cultura fisica e del pensiero scientifico duro e puro contro tutte le derive populiste che tanto spazio hanno nei pubblici dibattiti. Insomma, mutatis mutandis, sembra proprio che in queste Lettere dalla fine del mondo Vallortigara abbia deciso di vestire i panni del pacato Levi del Dialogo – a questo punto mi viene spontaneo chiedermi cosa avrebbe davvero confessato l’autore di capolavori come La chiave a stella e Il sistema periodico se, invece che in presenza, avesse anche lui potuto rispondere tramite missive all’amarcord di Regge – mentre Parente ha in qualche modo interpretato il ruolo di difensore delle scienze dure – e di quella razionalità che comunque anche io non posso che apprezzare moltissimo – di cui si era fatto a suo tempo carico l’astrofisico torinese. Un ruolo che interpreta con la sicurezza che ancora la fisica regala a chi la imbraccia, ma che, da spettatore e non da protagonista dell’avventura della ricerca, risulta tutto sommato privo delle vanità del suo predecessore.
Peccato solo che, da iconoclasta professionista e da persona scomoda agli estabilshment politicamente in quale ama apparire in tutti i suoi interventi, sul finire di questa piacevolissima, intensa e mai banale jam session su temi scientifici dia la forte impressione di non essere poi così scevro da meccanismi di conveniente apparentamento a circuiti esclusivi, quelli che ha impiegato decine di pagine a spiegarci che proprio non gli interessano. Per il resto, una lettura consigliatissima, comoda da portare in spiaggia e agile per la sua struttura in capitoli-giornata che ancora una volta rendono immediato l’accostamento tra queste Lettere dalla fine del mondo e i già citati “trialoghi”, specie quello del Galilei del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. Riprendendo, come promesso, parte dell’introduzione di Ferrero al Dialogo di Levi-Regge laddove il curatore citava Massimo Piattelli Palmarini il quale, sulle pagine del Corriere della Sera del 22 aprile 1985, scriveva di quel libretto: “Un paio d’ore di lettura in tutto, questo volumetto, ma di quelle che vengono dal cielo. Dopo si ha voglia di passarne altre sei a rimuginare quanto si è letto. Insomma, di quelle letture che riconciliano con l’esistenza e che le dànno, per un momento, un senso […] queste pagine sono di quelle cose da mettere in uno scrigno antiatomico e consegnare alla posterità o ad altri pianeti”, non posso che concludere scoprendo che la sensazione lasciata dalla lettura di Lettere dalla fine del mondo è del tutto simile. Unica differenza, i tempi di lettura: avendo Vallortigara “vendicato” in qualche misura la paziente e rassegnata remissività di Levi, il libro vi richiederà qualche ora in più da trascorrere assorti nella lettura al riparo dal sole sotto il vostro ombrellone.