I RISULTATI SU MONTHLY NOTICES OF THE ROYAL ASTRONOMICAL SOCIETY

Contare i fotoni per “zoomare” sulle stelle

Un gruppo di ricercatori dell’Istituto nazionale di astrofisica e dell’Università di Padova ha dimostrato la fattibilità di un metodo per lo studio di stelle brillanti contando uno ad uno i fotoni provenienti dalla stella Vega con i due telescopi da 1,8 e 1,2 metri dell’Osservatorio di Asiago. Questa tecnica potrà essere utilizzata in futuro da osservatori come Astri Mini-Array per catturare dettagli sulle superfici stellari con risoluzione mai raggiunta in banda ottica

     16/07/2021

Vista dall’alto delle due stazioni osservative situate ad Asiago: in alto a sinistra, la stazione di Cima Pennar, che ospita il Telescopio Galileo, e in basso a destra, la stazione di Cima Ekar, che ospita il Telescopio Copernico. Crediti: Geoportale Nazionale del Ministero dell’Ambiente

Le stelle sono enormi sfere di gas rovente con diametri che vanno da centinaia di migliaia fino a miliardi di chilometri ma, a causa delle immense distanze in gioco, scattarne una foto è un esercizio al limite dell’impossibile anche per i telescopi più potenti. Un esperimento realizzato mettendo in rete i due telescopi dell’Osservatorio di Asiago, in provincia di Vicenza, ha ora dimostrato la fattibilità di una nuova tecnica che potrà essere usata in futuro per aggirare questo limite, rivelando dettagli mai visti finora sulla superficie di stelle brillanti.

«A parte pochi casi eccezionali, non è possibile fotografare direttamente le stelle perché sono troppo piccole anche per la risoluzione dei più grandi telescopi ottici disponibili oggi», spiega Luca Zampieri dell’Istituto nazionale di astrofisica, primo autore dell’articolo pubblicato su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society. «Utilizzare più telescopi che lavorano insieme, come si fa con la tecnica dell’interferometria di fase, permette di superare questa limitazione e ottenere una risoluzione angolare superiore, che migliora quanto più distanti sono i telescopi. Nel nostro caso, abbiamo usato una tecnica simile ma un po’ diversa: l’interferometria di intensità».

L’esperimento pilota, realizzato nel 2019, ha usato come target Vega, la stella più brillante della costellazione della Lira, dove fa bella mostra di sé nelle notti estive proprio sopra le nostre teste, in prossimità dello zenit. A soli 25 anni luce di distanza, Vega è la quinta stella più brillante del cielo notturno e la seconda dell’emisfero nord: un ottimo banco di prova dunque per questa tecnica, che necessita di sorgenti molto luminose.

Lo strumento Aqueye+ (Asiago Quantum Eye) montato sul Telescopio Copernico. Crediti: Inaf

L’interferometria di intensità, introdotta negli anni Cinquanta dagli astronomi Robert Hanbury Brown e Richard Q. Twiss, è una tecnica che si basa sul principio dell’interferenza tra due onde: osservando una stella con due telescopi distanti e studiando la correlazione delle intensità dei due segnali, si può misurare la dimensione angolare della stella nel cielo. Il team guidato da Zampieri ha introdotto un’importante innovazione che sfrutta le proprietà quantistiche della luce: anziché misurare l’intensità del segnale con uno strumento convenzionale, i ricercatori hanno registrato il tempo di arrivo di ogni singolo fotone ai due telescopi. Questo è stato possibile grazie agli strumenti all’avanguardia Aqueye+ (Asiago Quantum Eye) e Iqueye (Italian Quantum Eye), sviluppati a partire dal 2005 da Luca Zampieri dell’Inaf e Giampiero Naletto e Cesare Barbieri dell’Università di Padova, anch’essi co-autori del nuovo studio. I due strumenti sono oggi montati rispettivamente sul Telescopio Copernico (1,82 metri di diametro) e sul Telescopio Galileo (1,22 metri di diametro) dell’osservatorio di Asiago, che distano tra loro 4 chilometri.

«Con questa tecnica, si può stabilire se i fotoni viaggiano molto ravvicinati ed arrivano ai due telescopi entro un intervallo molto breve di tempo», spiega Zampieri. «Noi siamo in grado di determinare l’arrivo di un fotone al telescopio con un’accuratezza di 400 picosecondi, cioè meno di mezzo miliardesimo di secondo: in questo minuscolo intervallo di tempo, la luce percorre circa 12 centimetri, e questa lunghezza si traduce nell’accuratezza di cui abbiamo bisogno sulla posizione dei due strumenti».

Lo strumento Iqueye (Italian Quantum Eye) montato sul Telescopio Galileo. Crediti: Inaf

L’esperimento di Asiago è il primo esempio di una misurazione di questo tipo effettuata con l’acquisizione e stoccaggio dei tempi di arrivo dei fotoni ricevuti dai due telescopi in maniera indipendente, ed effettuando l’analisi in seguito. «La nostra misura non consente ancora di costruire un’immagine», chiarisce Zampieri, «ma dimostra che con questi strumenti, con questo setup, con questa accuratezza temporale, salvando i dati e analizzandoli offline, il metodo funziona».

Questo studio di fattibilità apre nuove prospettive per l’imaging stellare: in futuro, passando da due telescopi a un array con elementi separati da circa un chilometro, sarà possibile realizzare immagini di stelle brillanti con una risoluzione senza precedenti. Una possibile applicazione potrebbe coinvolgere Astri Mini-Array, un progetto sviluppato dall’Inaf che prevede la costruzione di una batteria di nove telescopi Cherenkov a Tenerife, nelle Isole Canarie. I telescopi Cherenkov studiano l’universo attraverso i raggi gamma ad altissima energia, ma la loro tecnologia è quella di un telescopio ottico: vanno infatti a caccia di emissione nelle lunghezze d’onda del visibile prodotta dai raggi gamma che interagiscono con l’atmosfera terrestre. Nelle notti di luna piena, quando non è possibile effettuare questo tipo di osservazioni, si potrebbe puntare la schiera di telescopi verso stelle brillanti per osservare dettagli mai visti sulla loro superficie.

«Applicando questa tecnica a un osservatorio come Astri Mini-Array», prosegue Zampieri, «ci aspettiamo di poter risolvere un oggetto della dimensione di Giove sulla superficie di una stella che si trovi alla distanza di Vega: non un pianeta come Giove però, perché ci serve un contrasto di luminosità molto elevato, ma potremmo identificare macchie brillanti sulla superficie di una stella, causate per esempio da un hotspot magnetico, il che sarebbe estremamente interessante».

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