Il 95 per cento dei pianeti extrasolari è stato scoperto col metodo dei transiti o quello delle velocità radiali. Queste due tecniche osservative si concentrano però sulle regioni interne dei sistemi planetari, dai giganti gassosi infuocati fino alla zona abitabile delle stelle più piccole. Rispetto a esse, la tecnica del microlensing è ancora indietro per il numero di pianeti scoperti, ma su di essa si concentrano le grandi aspettative per i prossimi anni. Il microlensing è infatti l’unico metodo in grado di indagare le regioni intermedie dei sistemi planetari, dalla zona abitabile di stelle simili al Sole, fino ai mondi di ghiaccio delle fredde periferie, passando per i giganti gassosi simili a Giove o Saturno. Grazie al microlensing, superiamo la cosiddetta “snow line” oltre la quale i pianeti si formano aggregando anche il ghiaccio e crescono molto più rapidamente rispetto a quanto accade vicino alla stella. Poter confrontare i modelli di formazione planetaria delle aride regioni interne con quelle ghiacciate consentirà un grande balzo in avanti nella nostra conoscenza sulla varietà di mondi che popolano l’universo. È per questo che la Nasa investirà buona parte del tempo del Nancy Grace Roman Telescope, che nel 2025 intraprenderà una survey del centro galattico con lo scopo di trovare migliaia di pianeti col metodo del microlensing.
Il microlensing si basa sull’amplificazione della luce di una stella-sorgente lontana causata da una stella-lente che si interpone sulla linea di vista e che agisce da lente gravitazionale. La luce della stella-sorgente subisce un’amplificazione che può durare da alcuni giorni a qualche mese, a seconda della massa e della velocità della stella-lente. Se la stella-lente è accompagnata da un pianeta, il campo gravitazionale del pianeta può indurre “anomalie” sulla curva di luce, con caratteristici picchi secondari oppure depressioni. Le deboli anomalie indotte da piccoli pianeti sono però difficili da distinguere da altri effetti. Il caso dell’evento (così gli astrofisici chiamano il passaggio di una “lente” davanti a una “sorgente”) Moa-2006-Blg-074 è emblematico da questo punto di vista. Segnalato come anomalo in un’analisi retrospettiva della collaborazione Microlensing Observations in Astrophysics (Moa), che opera al telescopio di Mount John in Nuova Zelanda, è stato subito selezionato come un candidato planetario di tipo nettuniano da ben tre piattaforme di analisi diverse: una basata al Goddard Space Flight Center della Nasa, una dell’Università di Osaka in Giappone e una dell’Università di Salerno in Italia.
A questo punto, è partita l’analisi dettagliata dell’evento, condotta da un team di ricercatori guidati dall’Università di Salerno. Gli entusiasmi iniziali si sono tuttavia raffreddati quando è emerso un moto orbitale troppo rapido per poter dare luogo ad un sistema planetario fisicamente consistente. Evidentemente, quelle piccole anomalie riscontrate dal telescopio di Moa dovevano avere una spiegazione diversa da quella suggerita dalle analisi preliminari. Dopo aver vagliato diverse possibilità, è stata individuata una spiegazione alternativa: la sorgente era parte di un sistema binario con una compagna molto più debole.
«Non è la prima volta che in un evento di microlensing si trova una sorgente binaria. A volte viene amplificata anche la compagna della sorgente principale, altre volte, invece, la compagna lascia il segno sulla curva di microlensing attraverso il moto orbitale della sorgente principale intorno al centro di massa comune», sottolinea Valerio Bozza, professore associato all’Università di Salerno e coautore dell’articolo, pubblicato la settimana scorsa su The Astronomical Journal, che riporta i risultati dello studio.
Gli astronomi hanno trovato un nome curioso per questo fenomeno: xallarap – come ‘parallasse’ scritto al contrario. Infatti, l’effetto di parallasse è dovuto al moto orbitale dell’osservatore solidale con la Terra, mentre l’effetto di xallarap è dovuto al moto orbitale della sorgente e, in qualche modo, si configura come il caso opposto alla parallasse.
«Alla fine, tutti i parametri fisici per Moa-2006-Blg-074 tornano e sono consistenti con lo scenario di sorgente binaria: le masse, le luminosità delle due componenti, il periodo e il raggio orbitale. Insomma, non c’è più alcun dubbio», dice Paolo Rota, dottorando dell’Università di Salerno nel gruppo di Valerio Bozza e primo autore della pubblicazione. «La componente primaria ha una massa di 1.3 masse solari, la secondaria 0.44 masse solari. Le due stelle orbitano a una distanza di 0.14 unità astronomiche con un periodo di 14 giorni».
Tra le migliaia di pianeti che scoprirà Roman, non sarà raro ritrovarsi casi simili a quello di Moa-2006-Blg-074. La statistica sui piccoli pianeti potrebbe essere contaminata da sorgenti binarie e allora occorrerà aumentare le contromisure per identificare questi sistemi, concludono i ricercatori. Il software sviluppato dall’Università di Salerno avrà un ruolo centrale nell’analisi dei dati del telescopio Roman e l’esperienza maturata in casi come questi servirà a predisporre una piattaforma di analisi solida e affidabile – a prova di sorgenti binarie.
Per saperne di più:
- Leggi su The Astronomical Journal l’articolo “MOA-2006-BLG-074: Recognizing Xallarap Contaminants in Planetary Microlensing” di P. Rota, Y. Hirao, V. Bozza, F. Abe, R. Barry, D. P. Bennett, A. Bhattacharya, I. A. Bond, M. Donachie, A. Fukui