Torniamo a parlare del ruolo del Sole nell’inattivazione del virus Sars-Cov-2, un tema di cui abbiamo avuto esperienza diretta questa e la scorsa estate, ma finora mai scientificamente quantificato. Un articolo uscito oggi su Scientific Reports presenta la prima analisi completa e temporalmente estesa del ruolo che ha avuto il Sole nel contrastare la circolazione del virus dalla fine di gennaio 2020 fino a maggio 2021.
«Ci siamo resi conto ben presto che le curve epidemiche (contagi, ospedalizzazioni e decessi) sembravano aver avuto un andamento correlato alla latitudine, già dall’inizio dell’epidemia – o meglio, da quando abbiamo iniziato a contare i casi, intorno al 22 gennaio 2020 – fino a giugno 2020», spiega a Media Inaf Fabrizio Nicastro, ricercatore nella sede Inaf di Roma e primo autore dello studio. «In sostanza, sembrava che i paesi della fascia settentrionale del mondo – a latitudini maggiori di 20 gradi nord, dove fra gennaio e marzo è inverno – fossero stati sensibilmente più colpiti dal contagio rispetto ai paesi equatoriali (fra -20 e +20 gradi) e dell’emisfero sud (al di sotto dei -20 gradi di latitudine), dove fra gennaio e marzo è estate. Questa coincidenza ci ha colpiti, e ci siamo chiesti se la causa non fosse da cercare nei raggi Uv del Sole».
Che i raggi Uv “duri” (gli Uv-C) abbiano un potere “disinfettante” su virus e batteri è infatti cosa nota, ma non tutti i patogeni rispondono allo stesso modo a una dose usuale di radiazione Uv-C e, in particolare, la maggior parte quelli studiati finora rispondevano molto poco ai raggi Uv “morbidi” (Uv-B e, in particolare, Uv-A) – gli unici che arrivano a terra perché non assorbiti – o assorbiti parzialmente – dallo strato di ozono dell’atmosfera.
Il modello di “pompa solare”
Recentemente, alcuni ricercatori americani hanno pubblicato un modello teorico per descrivere l’efficacia degli Uv-B nel danneggiare la struttura del virus. I risultati sembravano confermare il ruolo della radiazione solare anche a queste lunghezze d’onda, ma nella trattazione mancava l’inclusione dei raggi Uv-A (molto più numerosi dei precedenti) ed emergeva una profonda discrepanza fra le previsioni teoriche e i dati sperimentali. Per comprendere quantitativamente quanto Uv-A e Uv-B irradiati dal Sole contino, Nicastro e collaboratori hanno affrontato la questione su tre livelli. Primo, hanno studiato in laboratorio la “risposta” del virus ai raggi Uv di diverse frequenze, dall’Uv-C all’Uv-A: data una certa concentrazione di virus, hanno misurato, cioè, quale frazione si inattiva dopo essere stata illuminata con una dose precisa di fotoni Uv. I dettagli dell’esperimento sono descritti in un articolo che uscirà a breve, mentre nello studio appena pubblicato si riporta la percentuale di inattivazione del virus quando esso è presente in concentrazioni tipiche dell’aerosol (all’aria aperta). Parallelamente, gli scienziati hanno continuato a monitorare le curve epidemiche in tutti i paesi del mondo e che pubblicano i dati raccolti dai loro governi attraverso la John Hopkins University, negli Stati uniti.
Infine – ed è questo l’oggetto principale del nuovo studio – hanno realizzato un modello matematico per descrivere la diffusione dell’epidemia che include, assieme a variabili come le misure di distanziamento, le riaperture e i vaccini, anche l’azione solare. «Abbiamo denominato questo meccanismo “pompa solare”, e il nostro scopo era quello di verificare se l’andamento stagionale osservato nelle curve epidemiche potesse essere attribuito all’azione del Sole» continua Nicastro. «In particolare, abbiamo correlato l’irradiazione solare del nostro modello con i dati sulla mortalità, una grandezza meno soggetta a incertezze sistematiche rispetto alla conta dei contagi».
Il ruolo del Sole
I risultati mostrano che l’efficienza di inattivazione del Covid-19 da parte dei raggi Uv-B e (soprattutto) Uv-A è alta: in soli 1-2 minuti di esposizione alla luce solare – d’estate alle latitudini temperate, o tutto l’anno all’equatore – sono sufficienti a inattivare il 63 per cento del virus in concentrazioni anche superiori a quelle tipiche dell’aerosol. Contemporaneamente, le statistiche indicano che la mortalità in 203 paesi del mondo analizzati ha seguito un andamento altamente correlato alle stagioni durante tutto il periodo considerato – dal 22 gennaio 2020 a maggio 2021. La probabilità che questo andamento sia frutto di una correlazione casuale fra tasso di mortalità (numero di morti per milioni di abitanti) in un dato paese (e quindi una data latitudine) e periodo dell’anno, inoltre, è risultata bassissima, dell’ordine di una su mille miliardi.
«Abbiamo realizzato delle simulazioni Monte Carlo dei nostri modelli di “pompa solare” nei 203 paesi del nostro campione, e abbiamo notato che essi riproducono bene l’andamento delle medie delle curve di mortalità nell’emisfero nord, nell’emisfero sud e della fascia equatoriale», dice Nicastro. «Quando, al contrario, il meccanismo della “pompa solare” viene spento – cioè tolto dal modello, che a quel punto si basa solo su ingredienti quali il verificarsi di lockdown o di riaperture, e i vaccini – l’andamento osservato delle curve di mortalità non è più riproducibile».
Il ruolo delle varianti
Si potrebbe concludere, quindi, che trascorrere molto tempo all’aria aperta – anche in compagnia – in un luogo molto soleggiato sia relativamente sicuro, in quanto il Sole si mostra davvero un prezioso alleato. E, in effetti, fino al maggio scorso ci si poteva pure credere. Non fosse per l’ingresso delle varianti, che sembrano alterare qualunque previsione anche relativa all’estate.
«In realtà, al momento la situazione in Italia è ancora abbastanza sovrapponibile a quanto successe lo scorso anno esattamente nello stesso periodo, sebbene in condizioni molto diverse: a maggio 2020 infatti si usciva da un lockdown molto più restrittivo di quello di quest’anno, e inoltre ora abbiamo i vaccini», dice Nicastro. «Le varianti sono più contagiose e questo ovviamente rema contro qualunque cosa agisca per ridurre la diffusione – dalle misure restrittive, ai vaccini, alla “disinfezione” dell’aria operata, ad esempio, dalla luce solare».
Nello studio si mostra, ad esempio, come la mortalità media in Sudafrica intorno al mese di febbraio – periodo estivo all’emisfero sud – è cominciata a salire: proprio in quel periodo nel paese si stava sviluppando la cosiddetta “variante Beta”. Se si aumenta la contagiosità, dunque, anche in presenza di altri fattori “mitiganti” i contagi aumentano, e con essi la mortalità.
«In effetti», conclude Nicastro, «il concetto di contagiosità è diverso da quello di letalità (il rapporto fra numero di morti e numero di persone infette). E quest’ultima sembra essere diminuita, in questo momento. In altre parole, rispetto al numero di persone che si infettano, oggi si muore (o si diventa malati gravi, con necessità di terapia intensiva) meno rispetto allo scorso inverno o autunno. Questo è certamente in parte dovuto ai vaccini, ma anche la scorsa estate era successa la stessa cosa: a fronte di contagi che risalivano i casi gravi o le morti restavano molto bassi. Di fatto, nonostante il diffondersi delle varianti, permane evidente un andamento differenziale della malattia fra emisfero nord e sud, certamente di matrice stagionale»
Per saperne di più:
- Leggi su Scientific Reports l’articolo “Solar UV-B/A radiation is highly effective in inactivating SARS-CoV-2”, di Fabrizio Nicastro, Giorgia Sironi, Elio Antonello, Andrea Bianco, Mara Biasin, John R. Brucato, Ilaria Ermolli, Giovanni Pareschi, Marta Salvati, Paolo Tozzi, Daria Trabattoni e Mario Clerici