E=mc2. La formula più famosa al mondo, nota anche (o forse, soprattutto) a chi non ne conosce il significato. È apparsa al grande pubblico già nel 1946, sulla copertina del Time magazine – minacciosamente impressa sopra la rappresentazione del fungo atomico – mentre ora si trova pacificamente stampata assieme al simpatico volto di chi la scrisse in T-shirt, tazze e gadget di ogni genere. Il merito del successo sta nella sua semplicità ed eleganza, che la rendono in grado – con soli tre termini – di descrive fenomeni fisici fondamentali. Grazie a lei, ad esempio, possiamo parlare delle condizioni dell’universo primordiale, una bolla di plasma incandescente talmente caldo che la materia di trasformava continuamente in energia e l’energia in materia. In quell’epoca, i fotoni erano parte della materia stessa, intrappolati nel plasma primordiale assieme alle altre particelle, perché costantemente assorbiti e riemessi. In quel tempo, poi, nel cosmo venivano prodotte in ugual numero particelle e antiparticelle che, quando si scontravano, si annichilivano producendo energia sotto forma di fotoni.
E qui, la domanda: e il contrario – ovvero produrre materia e antimateria a partire dai fotoni? È possibile? I fisici teorici, già da 80 anni, dicono di sì. Ora, finalmente, lo possono dire anche i loro colleghi sperimentali: al Relativistic Heavy Ion Collider (Rhic) – o Collisore di Ioni Pesanti Relativistico, a Brookhaven National Laboratory, negli Stati uniti – sono state analizzate più di 6mila coppie di elettroni e positroni creati direttamente dalla collisione fra fotoni molto energetici. I risultati sono pubblicati su Physical Review Letters.
L’antimateria che viene dalla luce
L’idea di far collidere fasci di fotoni fra loro, come dicevamo, è nata diverso tempo fa. Nel 1934, per la precisione, e fu descritta da due fisici: Gregory Breit e John A. Wheeler. L’articolo risale a un’epoca in cui i laser ancora non esistevano, e la proposta di far collidere ioni pesanti per generare energia era stata presentata come l’unica alternativa, pur essendo considerata una tecnica con un livello di fattibilità bassissimo.
Uno ione è un atomo nudo, privo dei suoi elettroni. Uno ione d’oro, ad esempio, con i suoi 79 protoni, è portatore di una potente carica positiva, tanto che la sua accelerazione a velocità molto elevate genera un potente campo magnetico che si avvolge a spirale intorno alla particella mentre viaggia, come la corrente che scorre attraverso un filo. Inoltre, se la velocità è abbastanza alta, la forza del campo magnetico circolare può essere uguale alla forza del campo elettrico perpendicolare: una simile configurazione di campi elettrici e magnetici perpendicolari di uguale forza è esattamente un fotone – una “particella” di luce quantizzata. Così, quando gli ioni si muovono vicino alla velocità della luce, ci sono un mucchio di fotoni che circondano il nucleo d’oro, viaggiando con esso come una nuvola.
L’esperimento proposto nei lontani anni ’30 è stato recentemente attuato al Rhic: gli ioni d’oro sono stati accelerati fino al 99,995 per cento della velocità della luce in due anelli acceleratori. Facendo scontrare due nuvole di fotoni che si muovono in senso opposto – senza far scontrare gli ioni che le generano – le particelle di luce possono interagire fra loro, producendo coppie di elettroni e positroni (anti-elettroni, appunto). La misura della distribuzione angolare e di massa condotta con il Solenoid Tracker al Rhic (Star) – un rivelatore in grado di misurare la distribuzione angolare delle particelle prodotte in collisioni di ioni d’oro che si muovono quasi alla velocità della luce – ha confermato che le coppie di materia-antimateria erano generate proprio da fotoni reali.
«I nostri risultati forniscono una chiara prova della creazione diretta, in un solo passo, di coppie materia-antimateria da collisioni di luce, come originariamente previsto da Breit e Wheeler», dice Daniel Brandenburg, ricercatore al Brookhaven Lab, che ha analizzato i dati che hanno portato alla scoperta. «Grazie al fascio di ioni pesanti ad alta energia del Rhic e alle misure di grande precisione del rivelatore Star, siamo in grado di analizzare tutte le distribuzioni cinematiche per determinare che i risultati sperimentali sono coerenti con le previsioni teoriche sulle collisioni di fotoni reali».
Piegare la luce nel vuoto
Non finisce qui. Lo stesso esperimento ha consentito di dimostrare per la prima volta che il percorso della luce che viaggia attraverso un campo magnetico nel vuoto si piega in modo diverso a seconda di come la luce è polarizzata. Tale deviazione dipendente dalla polarizzazione (nota come birifrangenza) si verifica quando la luce viaggia attraverso alcuni materiali e l’effetto è simile al modo in cui la dispersione dipendente dalla lunghezza d’onda divide la luce bianca in arcobaleni.
Come per l’antimateria, anche la teorizzazione di questo fenomeno è di lunga data. I primi a predire che uno spazio vuoto polarizzato da un potente campo magnetico potesse deviare i percorsi dei fotoni a seconda della loro polarizzazione furono Werner Heisenberg e Hans Heinrich Euler nel 1936, seguiti da John Toll negli anni ’50. Quest’ultimo, inoltre, aveva anche dettagliato come l’assorbimento della luce da parte di un campo magnetico dipende dalla polarizzazione e dalla sua connessione con l’indice di rifrazione della luce nel vuoto. Il fenomeno della birifrangenza è anche già stato osservato in molti tipi di cristalli e, di recente, è stata osservata luce polarizzata proveniente da una stella di neutroni – probabilmente a causa della sua interazione con il fortissimo campo magnetico.
Nel caso dell’esperimento a Rhic, la nuvola di fotoni che circonda gli ioni viaggia nel forte campo magnetico circolare prodotto dagli ioni accelerati nell’altro fascio d’oro e la polarizzazione della luce è misurabile dalla distribuzione delle particelle in uscita.
«Quando guardiamo i prodotti dalle interazioni fotone-fotone a Rhic, vediamo che la distribuzione angolare dei prodotti dipende dall’angolo di polarizzazione della luce», dice Chi Yang, ricercatore dell’Università di Shandong e collaboratore di Star a Rhic. «Questo indica che l’assorbimento (o il passaggio) della luce dipende dalla sua polarizzazione».
Questa è la prima osservazione sperimentale, ottenuta qui sulla Terra, del fatto che la polarizzazione influenza le interazioni della luce con il campo magnetico nel vuoto. L’avanzamento tecnologico degli ultimi anni – con la possibilità di raggiungere regimi energetici fino a poco tempo fa proibitivi – è un passaggio imprescindibile per poter indagare i primi istanti di vita del cosmo e comprendere i processi fisici che coinvolgono le particelle più elementari.
Per saperne di più:
- Leggi su Physical Review Letters l’articolo “Measurement of e+e+ Momentum and Angular Distributions from Linearly Polarized Photon Collisions”, di J. Adam et al. (STAR Collaboration)