Dopo Deinococcus radiodurans, il batterio super resistente conosciuto con l’alias di Conan il batterio, e Hypsibius dujardini, il tardigrado duro a morire, la hall of fame dei super-organismi potrebbe avere una new entry. Il suo nome è Xanthoria parietina. È un lichene. E stando ai risultati di uno studio presentato il 17 settembre scorso al Congresso europeo di scienze planetarie 2021 (Epsc), già sottoposto per la pubblicazione alla rivista Astrobiology, è un campione di sopravvivenza in condizione estreme: con tutte – o quasi – le carte in regola per entrare nel prestigioso club.
Per saperne di più, abbiamo raggiunto il primo autore dello studio, lo studente del corso di laurea magistrale in biologia ambientale dell’Università di Firenze Christian Lorenz, che ha valutato la sopravvivenza di questo organismo in condizioni spaziali simulate lavorando insieme al gruppo di ricerca di John Robert Brucato, responsabile del Laboratorio di astrobiologia dell’Inaf di Arcetri (Firenze), e ai ricercatori dell’Università di Siena.
Interessato a tutte le discipline scientifiche e alla divulgazione, durante la laurea triennale in scienze naturali all’Università di Firenze ha seguito il corso di astrobiologia tenuto da Brucato, grazie al quale è nata la sua passione per la materia, divenuta oggi uno dei suoi principali interessi di studio. Sul suo sito web scrive: “Attraverso quello che faccio, vorrei davvero coinvolgere più persone nel campo della ricerca e nelle questioni ambientali”.
Dottor Lorenz, cos’è esattamente Xanthoria parietina?
«Xanthoria parietina è un lichene. Si tratta perciò di un organismo simbionte, costituito da un partner algale o fotobionte – nel nostro caso, Trebouxia sp. – e un fungo ascomicete o micobionte, che dà anche il nome alla specie del lichene. Questo lichene è piuttosto comune, tant’è che lo possiamo trovare anche nelle nostre città e paesi di campagna. Vive generalmente su muretti, cortecce e ringhiere. Viene spesso utilizzato in ambito di biomonitoraggio ambientale, poiché tollerante a inquinanti come metalli pesanti e ossidi di azoto».
A proposito di tolleranza: uno fra i temi principali dell’astrobiologia è lo studio dei limiti della vita in ambienti estremi. Qual è il limite che avete testato nel vostro studio?
«La capacità di recupero e quindi sopravvivenza del nostro lichene esposto in condizioni spaziali simulate. Il limite a cui abbiamo fatto riferimento è quello della radiazione ultravioletta a livello spaziale. In particolare, il lichene è stato irraggiato con una lampada Uv con spettro di emissione simile a quello del Sole in due condizioni atmosferiche particolarmente disidratanti ed estreme: sotto flusso di azoto e in vuoto».
Ci racconti brevemente l’esperimento, dalla raccolta dei campioni alle analisi di laboratorio.
«La raccolta dei campioni è avvenuta nelle campagne toscane, nei dintorni di Firenze. I licheni sono stati attentamente rimossi dal loro substrato e conservati in freezer fino a trattamento. Dopodiché si è eseguita l’attivazione degli stessi con adattamento luce/oscurità e re-idratazione. Nelle 24 ore precedenti l’esperimento, i campioni sono stati mantenuti disidratati e ne sono stati valutati i parametri fotosintetici. La novità apportata da questo studio riguarda proprio la fase di trattamento, in quanto per la prima volta è stato monitorato in situ lo spettro infrarosso del lichene per verificare eventuali cambiamenti delle bande spettrali durante l’esposizione. A seguito del trattamento sono state eseguite – ogni giorno per tre giorni – le misure dei parametri fotosintetici per verificare la capacità di recupero dei campioni».
Perché proprio questo lichene?
«La scelta di un lichene, e di questa specie in particolare, come campione da testare si riferisce a tre aspetti: primo, i licheni sono organismi in grado di sopravvivere per lunghi periodi in stato disseccato; secondo, X. parietina produce la sostanza lichenica secondaria parietina, che offre protezione nei confronti degli Uv; terzo, una specie filogeneticamente affine a X. parietina – ovvero Rusavskia elegans – era già stata testata diverse volte sia in esperimenti di simulazione sia di effettiva esposizione, come sulla Iss, mostrando alcuni dei migliori risultati di recupero tra le specie licheniche testate».
Andiamo ai risultati. Cosa ci dicono?
«I risultati hanno rivelato qualcosa di molto interessante. L’analisi degli spettri ci ha fornito una visuale in tempo reale della degradazione superficiale del lichene durante l’irraggiamento. I modelli dei parametri di foto-efficienza ci confermano che a seguito di entrambi i trattamenti i licheni sono stati in grado di recuperare l’integrità strutturale del fotosistema, ma i trattati in vuoto hanno mostrato un ritardo nella ripartenza dell’attività fotosintetica. In conclusione, possiamo dire che per le condizioni testate in questo esperimento i campioni di X. parietina sono stati in grado di sopravvivere».
Qual è adesso il passo successivo?
«Esistono molti passi successivi. Quello già in fase di elaborazione riguarda l’aggiunta di un ulteriore punto di vista alle analisi già fatte, ovvero l’analisi al microscopio elettronico, che ci permetterebbe di verificare direttamente la presenza di danni strutturali o meno dovuti ai trattamenti. Il passo poi ulteriore è quello di testare questa specie lichenica anche in altri habitat extraterrestri simulati, come ad esempio la superficie marziana».
Deinococcus radiodurans e Hypsibius dujardini hanno alias di tutto rispetto… pensate di darne uno anche a Xanthoria parietina?
«Conan il batterio e gli orsetti d’acqua sono due dei mostri sacri della resistenza in condizioni super estreme. Il nostro lichene purtroppo ancora non è stato battezzato, e vorremmo aspettare ulteriori analisi di resistenza, magari quelle che seguiranno l’esposizione in condizioni marziane simulate, per dare un nome il più calzante ed adatto possibile».