Vesta – all’anagrafe 4 Vesta – è un corpo celeste di grande interesse, soprattutto per i ricercatori che si occupano di scienze planetarie. Il motivo è che, rispetto a qualsiasi altro oggetto del Sistema solare, l’asteroide – in questo caso, un vero e proprio protopianeta – mostra una completa stratificazione verticale caratterizzata dalla presenza, dall’interno verso l’esterno, di nucleo, mantello e crosta.
La maggior parte delle conoscenze su questo asteroide, oltre che dalla missione Dawn della Nasa – che gli ha orbitato intorno dal 2011 al 2012 – provengono dalle meteoriti di Hed (howardite-eucrite-diogenite), frammenti che ci hanno fornito importanti informazioni sulla composizione e sulla struttura della crosta e del nucleo. Nessuno di questi frammenti, tuttavia, ci ha fornito a oggi informazioni sul mantello del corpo celeste. E il motivo è semplice: nessuno di essi proviene da questo strato. Gli scienziati planetari si riferiscono a questa annosa questione come al problema del mantello mancante.
Un problema che adesso pare sia stato risolto. Su articolo apparso di recente su Nature Communications è riportata infatti la scoperta, fatta in tre meteoriti, di rocce provenienti dal mantello di Vesta.
Le meteoriti in questione, trovate tra il 2015 e il 2018 in Nordafrica, sono Nwa 12217, Nwa 12319 e Nwa 12562. Zoltan Vaci, ricercatore all’Institute of Meteoritics dell’Università del New Mexico (Usa) e primo autore dello studio, e i suoi colleghi hanno analizzato a fondo questi frammenti rocciosi, scoprendo al loro interno la presenza di rocce ultrafemiche contenenti Olivina, tipiche del mantello di corpi rocciosi. Misurazioni precise degli isotopi di ossigeno e cromo hanno infine mostrato che quelle che avevano davanti erano proprio meteoriti provenienti da Vesta.
«Questa è la prima volta che siamo stati in grado di analizzare il mantello di Vesta», sottolinea Qing-Zhu Yin, professore di scienze della terra e planetarie presso l’Università della California e co-autore dello studio. «La missione Dawn della Nasa ha osservato a distanza le rocce nel più grande cratere da impatto del polo Sud di Vesta nel 2011» continua lo scienziato, «tuttavia non ha trovato rocce provenienti dal mantello».
Quella fatta da Vaci e colleghi è una scoperta importante, ma non l’unica. Gli studi su Vesta non si sono infatti fermati qui.
In un’altra ricerca che vede coinvolto lo stesso Qing-Zhu Yin, utilizzando i dati di queste meteoriti e di quelle precedentemente scoperte, gli scienziati hanno indagato sull’origine del protopianeta e dei pianeti rocciosi più grandi del Sistema solare interno. Per farlo, in particolare, sono andati a misurare le abbondanze degli elementi chimici siderofili, traccianti chiave dei processi di accrescimento e differenziamento planetario.
«Poiché si è formato molto presto, Vesta è un buon modello per ripercorrere l’intera storia del Sistema solare», dice a questo proposito Yin. «Il suo studio ci porta indietro a due milioni di anni dopo l’inizio della formazione del Sistema solare».
Il risultato? Le quantità di questi elementi chimici possono essere spiegate solo da bombardamenti da parte di planetesimi, scrivono i ricercatori nell’articolo pubblicato la settimana scorsa su Nature Astronomy.
Si pensava che Vesta e i pianeti rocciosi interni più grandi avessero ottenuto gran parte della loro massa dalla fascia principale degli asteroidi, spiegano gli scienziati. In questo studio si è scoperto che i pianeti interni – Mercurio, Venere, Terra (e Luna) e Marte – e i pianeti nani interni hanno ottenuto la maggior parte della loro massa dalla collisione e dalla fusione con altri grandi corpi all’inizio della formazione del Sistema solare. Gli oggetti della fascia principale, concludono, non hanno contribuito molto alla formazione di questi mondi.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Communications l’articolo “Olivine-rich achondrites from Vesta and the missing mantle problem” di Zoltan Vaci, James M. D. Day, Marine Paquet, Karen Ziegler, Qing-Zhu Yin, Supratim Dey, Audrey Miller, Carl Agee, Rainer Bartoschewitz e Andreas Pack;
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “Common feedstocks of late accretion for the terrestrial planets” di Meng-Hua Zhu, Alessandro Morbidelli, Wladimir Neumann, Qing-Zhu Yin, James M. D. Day, David C. Rubie, Gregory J. Archer, Natalia Artemieva, Harry Becker e Kai Wünnemann