LO STUDIO SU JAMA NEUROLOGY

Se la permanenza nello spazio danneggia il cervello

L’analisi della concentrazione di alcuni biomarcatori condotta su campioni di sangue prelevati a cinque cosmonauti russi prima e dopo un lungo soggiorno sulla Stazione spaziale indica la possibilità di microlesioni ai tessuti cerebrali. Ne parliamo con uno degli autori dello studio, Henrik Zetterberg dell’università di Göteborg

     18/10/2021

Crediti: Anna Shvets/Pexels

Che la permanenza nello spazio non sia una passeggiata di salute già lo sapevamo. In vista delle lunghe permanenze oltre l’atmosfera terrestre previste dalle missioni in programma dalle agenzie spaziali per i prossimi anni è necessario comprendere a fondo tutte le possibili conseguenze sulla salute fisica e mentale degli astronauti. Gli effetti negativi sul corpo dopo lunghi periodi trascorsi in condizioni di microgravità sono noti da tempo, e vanno dall’atrofia muscolare, alla diminuzione della massa ossea, al deterioramento della vista fino all’alterazione della flora batterica nell’intestino. Per quel che riguarda il cervello, un nuovo studio su cinque cosmonauti russi al rientro dalla missione sulla Stazione spaziale internazionale (Iss) riporta la presenza di biomarcatori nel sangue associati a possibili danni cerebrali. L’articolo è pubblicato sulla rivista Jama Neurology.

I primi campioni di sangue dei cosmonauti – la cui età media era circa 49 anni – sono stati prelevati 20 giorni prima della partenza per la Iss. Sono poi rimasti nello spazio per 169 giorni (circa cinque mesi e mezzo). Dopo il loro ritorno sulla Terra, sono stati effettuati tre nuovi prelievi: un giorno, una settimana e circa tre settimane dopo l’atterraggio. Sono stati analizzati cinque biomarcatori relativi a possibili danni cerebrali.

«I biomarcatatori analizzati riguardano il metabolismo di neuroni, astrociti e amiloidi», spiega a Media Inaf uno degli autori dello studio, Henrik Zetterberg, dell’università di Göteborg (Svezia). «Non sappiamo se essi riguardino regioni specifiche del cervello, poiché per collegarli a queste sarebbe stato necessario effettuare immagini diagnostiche del cervello, mentre nello studio ci limitiamo a misurare questi parametri nel sangue. Questi biomarcatori sono prodotti (o rilasciati) da neuroni e astrociti stressati o addirittura morenti. Gli amiloidi sono prodotti dai neuroni e sono parte del metabolismo dei neuroni stesso: se aumentano, potrebbero aggregarsi e formare dei grumi nel cervello che troviamo associati, ad esempio, alla sindrome di Alzheimer».

I biomarcatori di cui parla Zetterberg, nello specifico, sono il neurofilamento a catena leggera (Nfl), la proteina fibrillare acida della glia (Gfap), tau totale (T-tau), e due proteine beta amiloidi. Per tre di questi – l’Nfl, la Gfap e la proteina beta amiloide Aβ40 – le concentrazioni erano significativamente elevate dopo il soggiorno nello spazio. Il picco dei valori non si è verificato contemporaneamente dopo il ritorno sulla Terra, ma le tendenze erano comunque coincidenti nel tempo. Gli astronauti, è bene specificarlo, non riportavano sintomi evidenti, e i ricercatori non hanno ancora compreso quale sia la causa più probabile di una simile alterazione: potrebbe essere l’assenza di peso, i cambiamenti nel fluido cerebrale, o i fattori di stress associati al lancio e all’atterraggio.

«I nostri dati indicano che forse è l’eliminazione di queste proteine dal cervello ad essere alterata e che potrebbe causare una disfunzione cerebrale», continua Zetterberg. «Le proteine sono infatti prodotte nel cervello, ma quando un astronauta si trova sulla Iss, ad esempio, l’eliminazione di queste nel flusso sanguigno potrebbe diminuire e, quando questo ritorna a Terra, potrebbe esserci invece un rilascio massivo nel sangue, producendo i risultati che descriviamo nello studio».

Alterazioni nel livello di biomarcatori come quelli indagati nello studio, in altre condizioni, erano già state collegate in precedenza a danni cerebrali, ma questo è il primo studio condotto su individui che hanno sperimentato un periodo di permanenza in microgravità.

I risultati, specifica il ricercatore, indicano solo che potrebbero esserci delle patologie cerebrali associate alla permanenza nello spazio. Quali possano essere queste patologie, quale la loro incidenza o le conseguenze a lungo termine è ancora da indagare approfonditamente.

«Dovremo replicare questo studio su altri astronauti e cosmonauti e stiamo discutendo attualmente con le agenzie spaziali per poterli attuare e poi vorremmo anche esaminare astronauti già ritirati, per verificare se essi riportano una maggiore incidenza di malattie neurodegenerative».

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