AAA: cercasi protezione da un’invasione aliena. All’aumentare delle missioni spaziali, corrisponde la crescita di potenziali rischi di contaminazione batterica o di altre forme di vita extraterrestri, sia per la Terra che per i pianeti e le lune nel mirino dell’esplorazione spaziale. Come prevenire una simile eventualità? Se ne occupa uno studio pubblicato questa settimana su BioScience.
«La probabilità che un organismo vivente extraterrestre faccia l’autostop, venga trasportato con successo sulla Terra e stabilisca qui un punto d’appoggio è ritenuta piuttosto piccola», dice l’autore principale della ricerca, Anthony Ricciardi, professore di invasion ecology alla McGill University (Canada). «Ma gli attuali approcci alla biosicurezza devono essere migliorati per affrontare questi rischi man mano che le missioni spaziali aumentano in frequenza e scala».
Per affrontare la gestione delle specie aliene invasive, negli ultimi decenni ha fatto il suo ingresso un nuovo campo interdisciplinare – la scienza dell’invasione biologica – che studia cause e conseguenze dell’introduzione di organismi oltre i loro limiti evolutivi naturali, ponendo l’accento sul ruolo degli esseri umani in queste introduzioni. Il primo passo – sostengono i ricercatori – è prendere spunto proprio dalle conoscenze acquisite dalla scienza delle invasioni per garantire il miglioramento e l’efficacia del sistema di biosicurezza planetaria.
Le invasioni e i loro impatti sono difficili da prevedere, quindi il kit di primo soccorso richiede anzitutto la valutazione dei pericoli di ipotetiche contaminazioni extraterrestri, nonché una diagnosi precoce e una risposta rapida per la prevenzione. La biosicurezza spaziale riguarda un tipo di contaminazione che possiamo definire a domicilio e da asporto, con la “consegna” di organismi viventi dalla Terra ad ambienti extraterrestri e viceversa, nel contesto di una missione di ritorno sulla Terra.
Il rischio di contaminare altri mondi è ormai ben noto e non semplice da controllare. Per esempio nelle camere bianche della Nasa – utilizzate per l’assemblaggio dei veicoli spaziali – sono stati scoperti ceppi microbici che mostrano un’estrema resistenza ai disinfettanti. Nonostante le precauzioni per contenere la contaminazione biologica – dal ricorso a radiazioni ionizzanti all’essiccazione – alcuni microrganismi sembrano riuscire a sopravvivere anche negli ambienti più puliti. Essendo molto difficile esplorare nuovi pianeti senza trasportare e consegnare microbi, la ricerca suggerisce dunque di trattare i pianeti e le lune che potrebbero ospitare vita alla stregua di “sistemi insulari”: luoghi come le isole oceaniche e le aree più isolate della Terra i cui gli ecosistemi si sono dimostrati estremamente sensibili agli effetti di un’invasione di specie aliene.
Secondo gli autori dello studio, i protocolli per il rilevamento precoce, la valutazione dei pericoli, la risposta rapida e le procedure di contenimento attualmente impiegate per le specie invasive sulla Terra potrebbero essere adattate per affrontare potenziali contaminanti extraterrestri. Per la prevenzione della diffusione di contaminanti biologici alieni avrebbero dunque un ruolo cruciale la diagnosi precoce e la rapidità della risposta.
«La diagnosi precoce potrebbe trarre vantaggio dalle nuove tecnologie di sequenziamento del Dna», sottolinea Ricciardi. «Se abbinate alla compilazione di banche dati accurate sugli organismi trovati nelle “camere bianche” in cui sono assemblati i veicoli spaziali, renderebbero possibile identificare eventuali specie invasive scartando quelle che potrebbero invece essere state introdotte accidentalmente su altri pianeti durante le precedenti missioni spaziali: un’eventualità della quale tenere conto per Marte, meta raggiunta a oggi da oltre due dozzine di veicoli spaziali».
Per saperne di più:
- Leggi su Bioscience l’articolo “Planetary Biosecurity: Applying Invasion Science to Prevent Biological Contamination from Space Travel”, di Anthony Ricciardi, Phillip Cassey, Stefan Leuko e Andrew P. Woolnough