L’acqua copre oltre il 70 per cento della superficie terrestre, ma da dove arriva? Alcuni studi mostrano che era presente sin dalle prime fasi della formazione del Sistema solare, nella polvere che costituiva il disco protoplanetario che circondava il Sole prima che si formassero i pianeti, dunque la Terra ne conteneva già sin dalle origini. Almeno in parte è però giunta dall’esterno, in una fase successiva. Quel che non è affatto chiaro è come: basandosi su analisi delle composizioni isotopiche, alcune teorie puntano il dito sulle comete, altre sugli asteroidi. Rimane comunque il problema di rendere conto della quantità di acqua presente sul nostro pianeta. Un puzzle ancora incompleto, dunque, ma al quale potrebbe ora essersi aggiunto un nuovo tassello. Secondo uno studio pubblicato oggi su Nature Astronomy e condotto da un team di scienziati guidato da Luke Daly della University of Glasgow, nel Regno Unito, fra i generosi mittenti dell’acqua recapitata sulla Terra ci sarebbe anche il Sole.
«Una teoria esistente è che l’acqua sia stata trasportata sulla Terra nelle fasi finali della sua formazione su asteroidi di tipo C», ricorda uno dei coautori dello studio, Phil Bland, direttore dello Space Science and Technology Center della Curtin University (Australia). «Tuttavia, precedenti test sull’impronta isotopica di questi asteroidi hanno riscontrato che, in media, non mostravano corrispondenza con l’acqua trovata sulla Terra, il che significa che almeno un’altra fonte mancava all’appello».
Ed è qui che entra in scena il Sole: l’ipotesi è che il vento solare, composto da particelle cariche provenienti dalla nostra stella e costituite principalmente da ioni idrogeno, interagendo con i granelli di polvere presenti sulla superficie degli asteroidi abbia anch’esso dato origine alla formazione di acqua. E che quest’acqua – isotopicamente più leggera – giunta in seguito sulla Terra abbia probabilmente fornito al nostro pianeta la restante parte del prezioso liquido.
Questa nuova teoria, spiegano gli autori dello studio, si basa su un’accurata analisi – atomo per atomo – di minuscoli frammenti dell’asteroide Itokawa, un asteroide di tipo S i cui campioni erano stati raccolti dalla sonda spaziale giapponese Hayabusa nel novembre del 2005 per poi essere portati sulla Terra, dove giunsero il 13 giugno del 2010. Grazie al sistema di tomografia a sonda atomica (atom probe tomography, Apt) della Curtin University, è stato possibile compiere un’analisi estremamente dettagliata dei primi 50 nanometri circa della superficie dei grani di polvere di Itokawa, rilevando una quantità d’acqua che, fatte le dovute proporzioni, ammonterebbe a circa 20 litri per ogni metro cubo di roccia. I dati relativi a queste misurazioni sono supportati dagli esiti delle analisi effettuate sulla stessa particella mediante microscopia elettronica a scansione (Sem) e microscopia elettronica a trasmissione (Tem).
I risultati suggeriscono che l’irradiazione del vento solare di materiali rocciosi provochi una reazione tra ioni idrogeno e minerali silicati in grado di produrre molecole d’acqua. Un processo ubiquo, questo: riserve d’acqua formatesi in modo analogo sono probabilmente onnipresenti sui mondi senz’aria ovunque nella Via Lattea. «La nostra ricerca mostra che lo stesso processo spaziale di alterazione che ha formato l’acqua su Itokawa», dice infatti Daly, «probabilmente ha avuto luogo su altri pianeti senza atmosfera. Questo vuol dire che gli astronauti potrebbero essere in grado di garantirsi scorte d’acqua direttamente dalla polvere presente sulla superficie di un pianeta, o di un corpo come la Luna».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “Solar wind Contributions to the Earth’s Oceans” di Luke Daly, Martin R. Lee, Lydia J. Hallis, Hope A. Ishii, John P. Bradley, Phillip. A. Bland, David W. Saxey, Denis Fougerouse, William D. A. Rickard, Lucy V. Forman, Nicholas E. Timms, Fred Jourdan, Steven M. Reddy, Tobias Salge, Zakaria Quadir, Evangelos Christou, Morgan A. Cox, Jeffrey A. Aguiar, Khalid Hattar, Anthony Monterrosa, Lindsay P. Keller, Roy Christoffersen, Catherine A. Dukes, Mark J. Loeffler e Michelle S. Thompson
Correzione del 29.11.2021: la rivista sulla quale è pubblicato lo studio è Nature Astronomy, non Nature come inizialmente scritto