Che sia il protagonista di un film di fantascienza o di una semplice congiunzione planetaria visibile a occhio nudo nel cielo notturno, il Pianeta rosso affascina l’umanità da centinaia di anni. Marte è uno tra i pianeti a noi più vicini e – fin dagli anni Sessanta – è stato oggetto di studio e analisi scientifiche condotte dagli strumenti a bordo di sonde che lo hanno esplorato in lungo e in largo, e che ancora oggi proseguono la loro indagine, come quella che sta conducendo la missione Mars2020 della Nasa.
Tuttavia, sono ancora molti gli interrogativi che circondano la storia evolutiva del pianeta. Una delle domande che più cruccia gli scienziati è: cosa ha causato la perdita della sua atmosfera e la conseguente evaporazione dei suoi oceani? Grazie a numerose prove ottenute analizzando il suolo marziano sappiamo, infatti, che in un passato lontano quattro miliardi di anni Marte possedeva degli oceani, un’atmosfera e dunque anche un campo magnetico protettivo, simile a quello della Terra. Uno studio guidato da Shunpei Yokoo, primo autore dell’articolo, e Kei Hirose, entrambi dell’Università di Tokyo, pubblicato la settimana scorsa su Nature Communications, prova a rispondere all’enigma dell’improvvisa scomparsa del campo magnetico di Marte attraverso un approccio sperimentale.
«Il campo magnetico terrestre è alimentato dai potenti correnti convettive ricche di metalli fusi del nucleo. Si pensa che i campi magnetici su altri pianeti funzionino allo stesso modo», spiega Hirose. «Sebbene la composizione interna di Marte non sia ancora nota, indizi ottenuti dai meteoriti suggeriscono che si tratti di ferro fuso arricchito di zolfo. Inoltre, le letture sismiche della sonda InSight della Nasa sulla superficie ci dicono che il nucleo di Marte è più grande e meno denso di quanto si pensasse in precedenza. Tutto ciò implica la presenza di ulteriori elementi più leggeri, come l’idrogeno. Tenendo conto di questo dettaglio, prepariamo leghe di ferro che ipotizziamo costituiscano il nucleo del pianeta e le sottoponiamo agli esperimenti».
In questo caso, per effettuare l’esperimento sono stati utilizzati dei diamanti, un laser e un elemento del tutto nuovo: ipotizzando l’originaria composizione del nucleo di Marte, i ricercatori hanno realizzato un campione di materiale – denominato Fe-S-H – contenente ferro, zolfo e idrogeno. Hanno poi compresso il campione tra i due diamanti, come fossero un’incudine, e lo hanno riscaldato con un laser a infrarossi, così da simulare la pressione e la temperatura stimate del nucleo di Marte. Le osservazioni dei campioni, condotte con raggi X e con fasci di elettroni, hanno consentito al team di immaginare cosa poteva accadere nel cuore di Marte durante la fusione sotto pressione e persino di mappare il modo in cui la composizione del campione cambiava durante l’esperimento.
«Siamo rimasti molto sorpresi nell’osservare un comportamento particolare che potrebbe spiegare parecchie cose. La lega di Fe-S-H, inizialmente omogenea, si è separata in due liquidi distinti con un livello di complessità mai visto prima a queste pressioni», spiega Hirose, «Uno dei liquidi di ferro era ricco di zolfo, l’altro ricco di idrogeno: questa è la chiave che spiega la nascita e, alla fine, la distruzione del campo magnetico attorno a Marte».
Il ferro liquido ricco di idrogeno e povero di zolfo, essendo meno denso, sarebbe salito al di sopra del ferro liquido, invece, più denso, ricco di zolfo e povero di idrogeno, causando delle correnti convettive. Queste correnti, simili a quelle nel nucleo della Terra, avrebbero originato un campo magnetico in grado di mantenere l’idrogeno all’interno dell’atmosfera di Marte, che a sua volta avrebbe permesso all’acqua di esistere allo stato liquido. Una volta che i due liquidi si sono separati, però, le correnti si sono arrestate, interrompendo anche il flusso del campo magnetico protettivo. A questo punto, secondo i ricercatori, il vento solare ha potuto spazzare via l’idrogeno presente nell’atmosfera, portando all’evaporazione degli oceani marziani.
«Ora speriamo che un ulteriore studio sismico di Marte potrà verificare – tenendo conto dei nostri risultati – che il nucleo sia effettivamente composto in strati distinti come abbiamo previsto», conclude Hirose. «Se fosse così, ci aiuterebbe a comprendere al meglio come si sono formati i pianeti rocciosi, inclusa la Terra, e a spiegare la loro composizione».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Communications l’articolo “Stratification in planetary cores by liquid immiscibility in Fe-S-H” di Shunpei Yokoo, Kei Hirose, Shoh Tagawa, Guillaume Morard e Yasuo Ohishi