Chi di mestiere da la caccia ai meteoriti lo sa bene: ritrovare frammenti caduti al suolo è tutt’altro che semplice. Sebbene le immagini di telecamere fisse costantemente puntate verso il cielo permettano di osservare questi oggetti sfrecciare in cielo e di calcolarne la traiettoria, nei casi in cui piccoli frammenti giungano al suolo, le aree indicate dalle osservazioni coprono, nel migliore dei casi, diversi chilometri quadrati di superficie. La ricerca da parte dei team che si occupano del ritrovamento – solitamente costituiti da quattro a sei persone che scandagliano i siti camminando a una distanza tra cinque e dieci metri l’uno dall’altro per diversi giorni – è, come si può ben immaginare, molto laboriosa, oltre che dispendiosa in termini di tempo.
Droni e intelligenza artificiale potrebbero però venirci in aiuto. Anzi, pare lo abbiano già fatto con successo: in un preprint pubblicato sull’archivio digitale di articoli scientifici arXiv.org, un team di ricercatori guidati dalla Curtin University riporta infatti il primo ritrovamento di un meteorite avvenuto grazie all’utilizzo di droni e algoritmi di intelligenza artificiale.
Il meteorite in questione è stato osservato per la prima volta sfrecciare infuocato sopra i cieli dell’Australia il primo aprile 2021. A registrarne il passaggio è stato il Desert Fireball Network, la rete di telecamere australiana che, similmente alla nostra rete Prisma (Prima Rete Italiana per la Sorveglianza sistematica di Meteore e dell’Atmosfera), monitora costantemente il cielo in cerca di bolidi, fireball in inglese: meteore che raggiungono almeno la luminosità di Venere, e che spesso sono visibili anche in pieno giorno.
Le osservazioni del sistema di telecamere e i successivi calcoli hanno permesso di determinare la possibile zona di impatto a terra di frammenti meteoritici dalla massa stimata tra 150 e 750 grammi: un’area di poco più di cinque chilometri quadrati all’interno della regione del Nullarbor, un’estesa area quasi desertica dell’Australia occidentale.
Con due droni al seguito, Seamus Anderson, ricercatore alla Curtin University e primo autore dello studio, e il suo team si sono recati nell’area in questione per un’escursione di quattro giorni sul campo, con lo scopo di ispezionare l’intera zona dall’alto e individuare possibili frammenti, acquisendo nei primi tre giorni immagini del sito in ogni direzione con una risoluzione di 1,8 mm/pixel.
Terminata la “sessione fotografica”, i ricercatori hanno dato in pasto le immagini ottenute ad un algoritmo di visione artificiale, addestrato a identificare meteoriti utilizzando un database di immagini, precedentemente acquisite, di rinvenimenti nella stessa area geografica insieme a nuove immagini di frammenti che hanno lasciato cadere sul posto e poi fotografato, sempre usando i droni. Quello che ha fatto l’algoritmo è scomporre le immagini del drone in tessere da 125 x 125 pixel e quindi analizzarle per cercare potenziali meteoriti.
Da 5096 immagini ottenute dal drone in quarantatré voli, attraverso un processo a più step di eliminazioni di falsi positivi, l’algoritmo di machine learning ha identificato quattro siti in cui era molto probabile si trovassero candidati meteoriti, spiegano i ricercatori.
Visitando uno di questi siti di persona nel quarto giorno della spedizione, a meno di cinquanta metri dalla traiettoria finale di caduta originariamente calcolata dal Desert Fireball Network, Anderson e colleghi hanno trovato ciò che stavano cercavano: un frammento di meteorite fresco di 5x4x3 cm di dimensioni e di 70 grammi di massa che hanno chiamato Dfn 09. L’oggetto non è stato ancora classificato, ma la sua crosta di fusione esterna assomiglia a quella di altre condriti, dicono i ricercatori, che aggiungono: sebbene abbiamo recuperato il meteorite, non abbiamo realmente addestrato un algoritmo a ritrovare meteoriti. Piuttosto, abbiamo creato un rivelatore di anomalie, in questo caso addestrato per l’area di Nullarbor.
Tornando al nostro emisfero, sarebbe possibile fare qualcosa del genere utilizzando i dati ottenuti dalle oltre 50 camere all-sky della rete Prisma che osservano i cieli italiani alla la ricerca di bolidi?
«La rete Prisma dispone di una completa pipeline di analisi dei dati realizzata dai nostri ricercatori. Quando c’è un evento importante, che potrebbe provocare la caduta di residui a terra, provvediamo a calcolare nel minor tempo possibile un’area di probabile caduta (strewn-field, in inglese). Le dimensioni tipiche sono di pochi chilometri quadrati, per cui l’utilizzo di droni per la ricerca, soprattutto se in aree disabitate, sarebbe assolutamente fattibile», dice a Media Inaf Daniele Gardiol dell’Inaf di Torino, coordinatore nazionale di Prisma. «Un conto è però utilizzare droni su un terreno pianeggiante e sostanzialmente sgombro da impedimenti, come un deserto; altro è utilizzarlo in un territorio come quello italiano, molto antropizzato e/o montagnoso. Tuttavia in particolari situazioni favorevoli l’uso di droni potrebbe essere una soluzione percorribile. Il problema sono al solito le risorse, economiche e umane, che nel caso di Prisma sono al lumicino».
Per saperne di più:
- Leggi su arXiv.org il preprint dell’articolo “Successful Recovery of an Observed Meteorite Fall Using Drones and Machine Learning” di Seamus L. Anderson, Martin C. Towner, John Fairweather, Philip A. Bland, Hadrien A. R. Devillepoix, Eleanor K. Sansom, Martin Cupak, Patrick M. Shober e Gretchen K. Benedix