Al dipartimento di scienze planetarie dell’Università dell’Arizona c’è una tradizione. Una volta discussa la tesi di dottorato, i neo-dottori e le neo-dottoresse ne bruciano una copia. «Un atto catartico, immagino», commenta Jamie Molaro, planetologa presso il Planetary Science Institute e il Jet Propulsion Laboratory in California, che ha completato il dottorato proprio in quel dipartimento nel 2015. Invece di bruciarla, però, la sua tesi ha deciso di trasformarla in arte. «Il focus della mia tesi era su come le rocce si rompono ed erodono sulla Luna», spiega a Media Inaf la ricercatrice, «quindi dalle pagine ho scolpito un paesaggio lunare craterizzato».
Il risultato è ‘The Book of Moon’, un cofanetto di legno che custodisce il sudato malloppo di carta, finemente intarsiato usando i dati del Lunar Orbiter Laser Altimeter a bordo della missione Nasa Lunar Reconnaissance Orbiter. Sbirciando attraverso la topografia lunare impressa nella carta si possono intravedere il testo e le figure scientifiche, svelando i molteplici strati del processo di ricerca che ha portato alla realizzazione della tesi. «È stato un lavoro d’amore e un atto catartico che ho compiuto per elaborare mentalmente la fine del dottorato», aggiunge Molaro. All’analisi dei processi di erosione in atto sul nostro satellite naturale, l’opera affianca la bellezza del paesaggio che questi fenomeni contribuiscono a plasmare. «È stato davvero impegnativo perché avevo così tanto da imparare sulla metodologia e ho scelto un paesaggio molto complesso per il mio primo tentativo – per non parlare della mia tesi, molto lunga!».
Se questa “topografia su carta” ha marcato la conclusione di un ciclo per la ricercatrice, che avendo completato la formazione accademica entrava a tutti gli effetti nei ranghi della comunità scientifica, l’opera ha anche segnato l’inizio di un nuovo percorso artistico, seguita da nuove creazioni di carta e intarsio ispirate a corpi del Sistema solare che spaziano dai paesaggi marziani agli anelli di Saturno, dai pianeti nani Cerere e Plutone alle lune ghiacciate Titano ed Europa. «Di solito creo almeno qualche pezzo nuovo ogni anno», racconta Molaro, che si definisce una persona generalmente creativa sin da quando era bambina, pur non avendo formalmente studiato arte. «Crearli richiede tempo, c’è tanto da fare per progettarli e comporli, anche prima di realizzarli fisicamente. Ho un arretrato di idee che fluttua costantemente nella mia testa in ogni momento, ma in genere i lavori che riesco a finire sono ispirati da qualcosa che sta succedendo nella mia vita in quel momento».
Anche il ricamo è tra le sue tecniche creative. Quando è entrata, per esempio, a far parte del team della missione Nasa Osiris-Rex, che nel 2020 ha raccolto un campione di roccia dall’asteroide Bennu, Molaro ha realizzato un arazzo per commemorare il rendez-vous della sonda con il piccolo corpo celeste. Il pezzo accosta suggestioni provenienti dall’arte figurativa dell’antico Egitto, evocato nel nome della missione, a immagini della memorabile impresa spaziale. Molte delle sue opere sono dedicate al lavoro di altre persone. «Mi piace farlo perché è un modo per celebrare sia la scienza che la persona. Ho realizzato diversi pezzi per i miei relatori, mentori e collaboratori basati sul corpo planetario della loro ricerca».
Nel 2013, insieme al collega James Keane – come lei, scienziato e artista – Molaro ha fondato The Art of Planetary Science, una mostra d’arte annuale ispirata alla scienza e all’universo, che ha contribuito a organizzare fino al 2018 a Tucson, in Arizona, e dove espone regolarmente le sue opere. «Gestire una mostra richiede così tanto tempo, lavoro e amore, non è un lavoro per tutti» aggiunge. Oggi l’iniziativa viene portata avanti da un nuovo gruppo di studenti dell’Università dell’Arizona – «attualmente stanno per finire il dottorato, quindi staremo a vedere se un nuovo gruppo prenderà il sopravvento» – mentre la ricercatrice di mostre ne organizza anche altrove, di solito in concomitanza con congressi scientifici come il meeting annuale della Division for Planetary Sciences della American Astronomical Society. «È bello perché puoi entrare in contatto con artisti locali ovunque si tenga il congresso, il che fornisce un collegamento piacevole tra la comunità locale e gli scienziati».
Ne sa qualcosa Giannandrea Inchingolo, ricercatore e creative scientist presso il dipartimento di fisica e astrofisica dell’Università di Bologna, ideatore della mostra Into the (un)known, curata e organizzata dall’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) e presentata in anteprima al Festival della Scienza di Genova nel 2020. Una rassegna di suoni e immagini, in parte familiari ma allo stesso tempo lontani anni-luce dalla quotidianità, estratti da osservazioni astronomiche e simulazioni numeriche di fenomeni fisici rilevanti su scale cosmiche, per offrire un’esperienza immersiva in un mondo del tutto nuovo, in apparenza astratto e forse addirittura innaturale.
«Come per tutte le ricercatrici e i ricercatori, quello che cerco di fare quando devo analizzare dei dati è di base cercare di capirli e interpretarli al meglio: a volte, questo significa utilizzare un linguaggio più estetico per visualizzarli e quindi renderli per me più facilmente accessibili», racconta a Media Inaf l’astrofisico, che conserva come monito nelle sue attività di commistione tra arte e scienza l’etichetta di creative scientist datagli – in contrapposizione a quella, più diffusa, di science artist – dal collaboratore e mentore Joe Paradiso, professore al Mit Media Lab di Boston. «Secondo lui riuscivo a tirar fuori la parte più artistica ed emotiva delle mie ricerche tramite i lavori che stavo sviluppando», racconta. «Prima di tutto sono un ricercatore o comunque ho una formazione scientifica tale per cui la veridicità dei dati è sempre il nocciolo centrale del mio lavoro. Non uso i dati per raccontare una storia o creare delle installazioni artistiche per trasmettere emozioni, ma creo storie e installazioni artistiche per permettere ai dati di comunicare a un livello più emozionale e sensoriale quello che essi hanno da raccontare, sia al pubblico generico sia ad altre esperte ed esperti della comunità scientifica».
Inchingolo studia la dinamica dei plasmi astrofisici: materia estremamente calda e rarefatta, ridotta nei suoi costituenti elementari, ovvero elettroni e ioni. Se il plasma è uno stato della materia poco comune sulla Terra, nell’universo è praticamente ubiquo, dal vento solare agli interni e le atmosfere delle stelle, dai resti delle poderose esplosioni di supernove ai dischi di accrescimento intorno ai buchi neri fino al gas che permea gli spazi interstellari e ancora oltre, tra una galassia e l’altra. È proprio sul mezzo intergalattico che si concentra la sua ricerca, sfruttando una combinazione di simulazioni e modelli teorici per comprendere come si sviluppano le instabilità all’interno di questi ambienti cosmici estremi, come vengono accelerate le particelle, come si formano shock e turbolenza. «Nel mio lavoro, la creatività si manifesta come pensiero trasversale, sia per l’analisi dei dati sia per la disseminazione dei lavori di ricerca attraverso progetti di outreach e public engagement», aggiunge. «In particolare, trovare soluzioni creative per un problema che si sta affrontando o un’idea che si ha avuto significa per me saper trovare anche esperte ed esperti con cui relazionarmi per condividere le differenti competenze e lavorare assieme come un team multidisciplinare».
Secondo il ricercatore, visualizzare i dati scientifici, cercando spesso un punto di vista diverso, è un ingrediente essenziale per la comprensione dei risultati stessi all’interno della comunità scientifica. Spesso può anche fornire l’ispirazione per nuove analisi scientifiche, seguendo il mantra della mostra, che recita: “Art to communicate Science, Art to improve it” (in italiano: arte per comunicare la scienza, arte per migliorarla).
Un esempio è il video ‘Reliquie di un arrembaggio’, prodotto da Inchingolo insieme a Magcow, il gruppo di ricerca di cui fa parte all’università di Bologna, e dedicato ai radio relics, gigantesche sorgenti di onde radio prodotte nel plasma che pervade gli ammassi di galassie, le più grandi strutture dell’universo tenute insieme dalla mutua gravità. Protagonista del video, premiato come miglior visualizzazione nel concorso indetto dal National Radio Astronomy Observatory per i 40 anni del Very Large Array, è la luce stessa generata nelle collisioni tra questi giganti cosmici, che narra in prima persona le sue avventure. È proprio dalla produzione di questo video che è nata l’idea di un’ulteriore analisi dei dati visualizzati, che a sua volta ha portato a una nuova interpretazione sull’origine di questa radiazione – a produrla potrebbero essere elettroni accelerati da molteplici shock alla periferia di ammassi galattici in corso di merging – pubblicata alla fine dello scorso anno su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society.
Scelte che sembrano puramente formali nella rappresentazione visiva di un set di dati, possono così influenzare, talvolta anche in modo significativo, il corso della ricerca. «Se pensiamo ai vari strumenti tradizionali di visualizzazione grafica dei dati che usiamo all’interno della comunità scientifica, non tutte le palette di colori sono efficaci per rappresentare le diverse sfumature interpretative dei dati», chiarisce. «Già in questa maniera noi ricercatrici e ricercatori facciamo una scelta estetica, magari inconsciamente, per selezionare i colori che meglio ci permettono di interpretare i risultati. Quello che faccio con il mio lavoro di Into the (un)known, alla fine, è estendere questo approccio anche ad altri strumenti di analisi o di visualizzazione».
Tra le fonti di ispirazione, il ricercatore cita i lavori della casa di produzione londinese Marshmellow laser feast e i progetti della rete Science Gallery. «Non ho un lavoro preferito», aggiunge Inchingolo, «ma cerco di mantenermi aggiornato il più possibile su alcune realtà di creative science e science art in giro nel mondo, principalmente fuori dal mondo accademico». Se ritiene che la comunità scientifica, in particolare quella astrofisica, ha raggiunto oggi una maggior consapevolezza del potere della visualizzazione scientifica come strumento per comunicare l’universo così come lo studiano ricercatrici e ricercatori, «la strada è ancora lunga: credo che per poter interagire e contribuire all’immaginario pubblico, prima di tutto sia necessario entrare in comunicazione con il pubblico, sapendo adattare l’estetica delle nostre visualizzazioni con l’estetica che meglio ci permette di entrare in contatto con loro». Diventa sempre più cruciale, per ricercatrici e ricercatori, acquisire competenze e conoscenze al di là degli strumenti tradizionalmente associati alla pratica scientifica: «nel mio caso, questo ha significato anche guardare il mondo dell’arte digitale e della cinematic scientific visualization, disciplina che unisce tecniche di computer grafica e avanguardie artistiche digitali alla visualizzazione scientifica dei dati. Per fortuna dei passi in questa direzione si stanno facendo anche a livello istituzionale, come il workshop Engage per la comunicazione e divulgazione della scienza organizzato dall’Inaf, ma servirebbe un’azione più capillare e più diffusa».
Sul fronte analogico, ma ribaltando le parti, Jamie Molaro ha lanciato quest’anno la serie di seminari ‘Making Space: A Workshop on Space, SciArt, & Society’ supportata dal Solar System Exploration Research Virtual Institute della Nasa: un ciclo di incontri in presenza, aperti al pubblico in diverse città degli Stati Uniti nel corso dell’anno, per imparare a usare l’arte come strumento per comprendere e comunicare idee scientifiche. Il primo seminario si terrà a metà aprile a Tucson. «Credo che l’atto di creare o essere coinvolti in attività di arte-scienza fornisca alle persone un modo molto piacevole per stabilire una connessione personale e significativa con la scienza, in un modo che non richiede loro di “imparare” o capire: è un’esperienza personale che può far sembrare la scienza meno alienante o estranea», nota la ricercatrice, impegnata al momento anche nella stesura di un libro sull’arte ispirata da dati scientifici e il suo ruolo nella società. «Penso anche che l’atto di creare arte fornisca un modo per coloro che non sono scienziati di partecipare alla discussione sul perché la scienza è importante, su come e dove dovremmo esplorare e cosa significa esplorazione».
Come e cosa esplorare, e soprattutto i corpi che partecipano all’esplorazione – in particolare quella spaziale – sono temi centrali nell’opera della statunitense Sian Proctor: geologa, comunicatrice scientifica, educatrice e prima donna nera a pilotare un veicolo spaziale. «Scienza e immaginazione non sono entità separate che esistono indipendentemente l’una dall’altra: sono intrecciate come parte fondamentale di tutto ciò che facciamo. C’è scienza nell’arte e arte nella scienza», ha dichiarato a Media Inaf la scienziata, la cui vita è segnata profondamente dalle imprese spaziali. Nata a ridosso del primo allunaggio a Guam, isola del Pacifico dove il padre, un ingegnere della Nasa, lavorava per monitorare da terra le missioni Apollo, Proctor è cresciuta con l’autografo di Neil Armstrong tra i memorabilia di famiglia. Mezzo secolo più tardi, tra il 16 e il 18 settembre 2021, ha guidato la capsula Crew Dragon ‘Resilience’ della missione Inspiration4, trascorrendo quasi tre giorni in orbita terrestre bassa a bordo della prima missione privata con equipaggio – quattro persone in tutto – formato interamente da cittadini non appartenenti ad agenzie spaziali.
Prima di questo storico volo, aveva partecipato a una selezione per astronauti Nasa nonché a tre simulazioni di vita nello spazio, trascorrendo quattro mesi nell’Hawai’i Space Exploration Analog and Simulation, due settimane nella Mars Desert Research Station e altre due settimane nel LunAres Moon Habitat. Abituata a esplorare il pianeta in lungo e in largo, durante la pandemia, circa un anno prima di intraprendere il suo primo viaggio orbitale, ha mosso i suoi primi passi da artista spaziale. «Avevo bisogno di un nuovo modo per liberare la mia creatività», ricorda Proctor. «Il mio hobby principale prima del Covid era viaggiare. Con la pandemia è diventato impossibile: mi sono ritrovata bloccata a casa, così ho iniziato a creare opere d’arte sotto forma di cartoline collage». Grazie a una pagina Patreon, la scienziata ha raccolto un piccolo gruppo di follower che l’hanno supportata come artista emergente, permettendole di sperimentare con nuovi mezzi, come pittura metallica e acquerello.
Non sono dati scientifici a popolare le sue opere ma visioni dello spazio. Uno spazio possibile, fatto non solo di scienza e tecnologia ma anche di arte, di danza, di magia e poesia – in una parola, di umanità. In pieno stile Afrofuturista, Proctor ha creato le Afronauts, donne astronaute che sognano una vita tra le stelle. C’è anche la serie Afrobotica, «che offre uno sguardo più futuristico su dove andrà l’umanità mentre sviluppiamo la tecnologia robotica che ci aiuterà ad avventurarci oltre la Terra», e poi i disegni della serie AfroGaia, che «riguardano la Madre Terra e il nostro bisogno di nutrire e proteggere l’astronave Terra mentre diventiamo semi della Terra verso le stelle».
Ogni opera è accompagnata da una poesia, combinazione artistica attraverso cui la scienziata, che crede fermamente nell’impegno collettivo verso uno spazio J.E.D.I. – just, equitable, diverse, and inclusive; in italiano: giusto, equo, diversificato e inclusivo – esprime la sua voce più autentica. «La creatività e l’immaginazione consentono all’umanità di sognare l’impossibile», afferma, «mentre la scienza, la tecnologia e l’ingegneria ci consentono di trasformare l’impossibile in realtà».
Per saperne di più:
- Visita il sito Data Arcana con le opere di Jamie Molaro
- Visita il sito della mostra The Art of Planetary Science
- Visita il sito della mostra Into the (un)known, ideata da Giannandrea Inchingolo
- Visita il sito Space2Inspire con le opere di Sian Proctor