Delizia e tormento dei cosmologi, la costante di Hubble da qualche anno sta alimentando più dubbi di quanti non ne sciolga. Il problema attorno al quale si arrovellano i ricercatori è la cosiddetta “tensione” attorno al suo valore. Espresso in chilometri al secondo per megaparsec – vale a dire, quanto aumenta la velocità di allontanamento (in km/s) delle galassie fra loro man mano che aumenta la distanza che le separa (in megaparsec, unità di misura corrispondente a poco più di tre milioni di anni luce) – il valore della costante di Hubble H0 risulta essere di circa 73 se derivato dalle osservazioni delle supernove, e di circa 67 se dedotto, invece, dalla radiazione cosmica di fondo, assumendo il modello di evoluzione dell’universo a oggi più affidabile. Può sembrare una differenza di poco conto, ma occorre tenere presente due particolari. Anzitutto, essendo una misura del tasso d’espansione dell’universo, la costante di Hubble è fondamentale per stimarne l’età, e uno scarto di 6 km/s/Mpc corrisponde grosso modo a un miliardo di anni in più o in meno – non proprio un’inezia. Ma l’aspetto veramente critico è che si tratta di due misure entrambe estremamente precise: dunque non ci si può illudere che lo scarto sia dovuto al margine d’errore e che, dunque, il valore “vero” possa trovarsi a metà strada, per esempio. Sono proprio due valori incompatibili.
Per uscire dall’impasse occorre dunque escogitare altri metodi – altre “sonde”, le chiamano gli astrofisici – per misurarla, questa scivolosa costante. Ci stanno provando in tanti – con i quasar, con le lenti gravitazionali, con l’astronomia multimessagera, eccetera. E ci prova ora anche un team guidato da Nicola Borghi, giovane astrofisico di Renazzo – paese in provincia di Ferrara in cui il 15 gennaio 1824 cadde un meteorite molto conosciuto per le sue proprietà chimiche e strutturali, tanto da aver dato il nome a un’intera categoria di meteoriti, le condriti carbonacee “Renazzo”. Dottorando in astrofisica all’Università di Bologna, Borghi ha firmato come primo autore due articoli – entrambi pubblicati il mese scorso su The Astrophysical Journal – che per contribuire a risolvere il problema propongo l’adozione di “cronometri cosmici”.
«L’idea dei cronometri cosmici», spiega Borghi a Media Inaf, «è quella di studiare l’invecchiamento di oggetti che tracciano lo scorrere del tempo cosmico dell’universo. Questi oggetti sono galassie relativamente molto massicce (si parla di più di 100 miliardi di soli) e passive: ossia, a differenza della nostra Via Lattea, non formano più stelle. La loro evoluzione è stata rapidissima, e ci permettono di avere una fotografia storica dell’universo nell’epoca in cui le osserviamo. Combinando diverse fotografie ottenute a diverse epoche possiamo misurare non solo il loro invecchiamento ma, grazie alle loro proprietà, anche l’invecchiamento dell’universo – e da questo la sua storia di espansione».
Ma cosa c’entra la velocità d’invecchiamento dell’universo con la costante di Hubble? Per rispondere conviene partire dal simbolo che la rappresenta: H0, in italiano acca-zero, dove l’acca sta ovviamente per costante di Hubble mentre lo zero sta per oggi – ovvero, come preferiscono esprimersi gli astrofisici quando si tratta d’indicare distanze di spazio e tempo cosmologiche, a redshift z = 0. Per esprimere invece la costante di Hubble in un’epoca z qualsiasi si usa il simbolo H(z). Se si riuscisse dunque a tracciare una curva abbastanza precisa dell’andamento di H(z) nel tempo, ecco che potremmo prolungarla fino a oggi, ottenendo così l’agognato valore di H0. C’è però un problema: l’universo evolve su scale di tempi lunghissime, miliardi di anni. Per raccogliere i punti necessari a tracciare la curva di H(z) gli astronomi non hanno tutto questo tempo. Bisogna dunque fare ricorso a un escamotage. Ed è qui che entrano in gioco i cronometri cosmici: oggetti che hanno avuto proprietà fisiche ben note allo scorrere del tempo.
«Se noi, osservandoli, li vediamo diversi, allora vuol dire che è successo qualcosa tra noi e loro, come ad esempio che l’universo si è espanso, e riusciamo a misurarlo», spiega Borghi. «Il grande vantaggio dei cronometri cosmici è che ci permettono di conoscere il valore della costante di Hubble non solo oggi, ma anche in epoche cosmiche remote, ossia di ricostruire la storia di espansione del nostro universo. O, in gergo tecnico, a diversi redshift z, ottenendo quindi i valori del parametro di Hubble H(z). Una volta che ricostruiamo l’andamento a diversi z, possiamo poi estrapolarlo fino a z=0, ossia a oggi, e avere quindi una misura indipendente di H0».
L’analogia che usa Borghi è quella con gli anelli degli alberi: contandoli, analizzando la composizione del materiale presente fra ciascuno di essi, studiandone il variare della distanza l’uno dall’altro e la loro conformazione i dendrocronologi riescono a datare con precisione eventi remoti nel tempo. Nel caso dei cronometri cosmici gli “anelli” sono, appunto, un campione di galassie massicce e passive.
«Abbiamo utilizzato dati di Lega-C, una survey rilasciata pubblicamente dall’Eso e condotta con lo strumento Vimos al Very Large Telescope, in Cile. Ad oggi, questi dati sono ancora molto competitivi perché ci permettono di studiare accuratamente l’età e la composizione chimica di centinaia di galassie tra 8 e 7 miliardi di anni fa. Dal loro invecchiamento tra queste due epoche abbiamo ottenuto una nuova misura del tasso di espansione dell’universo H(z=0.75) = 98.8 ± 33.6 km/s/Mpc».
Siamo dunque finalmente vicini allo scioglimento della tensione attorno al valore della costante di Hubble? È troppo presto per dirlo. L’ampio margine d’incertezza della misura ottenuta evidenza uno dei due limiti principali dell’impiego dei cronometri cosmici, ovvero la necessità di mettere a punto modelli per misurare le età delle galassie con una migliore accuratezza. L’altro grande divario da colmare è ottenere più punti, ovvero misure a diversi redshift.
«Sarebbe cruciale avere una campagna osservativa dedicata all’acquisizione di spettri con un’adeguata qualità e risoluzione per un vasto numero galassie fino a z ~ 1-2, cioè fino a 8-10 miliardi di anni fa», dice a questo proposito Borghi. «Nell’attesa si potrebbero studiare altri metodi alternativi. Io personalmente ora sono in treno diretto verso Ginevra per fare tre mesi di ricerca sulle onde gravitazionali, un’altra sonda molto promettente che in sinergia con i cronometri cosmici ci permetteranno di studiare la storia di espansione dell’universo con nuovi approcci».
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “Toward a Better Understanding of Cosmic Chronometers: Stellar Population Properties of Passive Galaxies at Intermediate Redshift”, di Nicola Borghi, Michele Moresco, Andrea Cimatti, Alexandre Huchet, Salvatore Quai e Lucia Pozzetti
- Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo “Toward a Better Understanding of Cosmic Chronometers: A new measurement of H(z) at z~0.7”, di Nicola Borghi, Michele Moresco e Andrea Cimatti