Si chiama Journal of Geoethics and Social Geosciences ed è una nuova rivista scientifica edita dall’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv). Il tema principale, lo si legge nel titolo, è la geoetica, una disciplina relativamente recente che comprende e studia tutte le implicazioni etiche, sociali e culturali che le scienze della Terra portano con sé. Tra i temi trattati vi sono i rischi naturali e antropogenici, le risorse naturali e la sostenibilità, l’inquinamento e i cambiamenti climatici, la salvaguardia della geodiversità e del patrimonio naturale, ma anche l’educazione e la comunicazione delle geoscienze, l’integrità della ricerca e, soprattutto, il ruolo della scienza e degli scienziati nella trasmissione delle conoscenze scientifiche che influenzano la vita dei cittadini. Qualsiasi decisione e qualsiasi scelta si faccia sul territorio, infatti, ha delle implicazioni specifiche sul contesto sociale e culturale, sulla sicurezza delle persone, sull’economia e sulla politica. In questo senso, lo scienziato deve potersi relazionare con il contesto in cui opera e con gli altri attori coinvolti nelle decisioni sulla gestione del territorio. È questa la consapevolezza e la visione che sta dietro la geoetica, e in qualche modo anche il suo manifesto. Media Inaf ne ha parlato con Silvia Peppoloni, ricercatrice all’Ingv, direttrice della nuova rivista e fondatrice della geoetica.
Lei è stata definita la “fondatrice della geoetica”, un campo emergente delle goescienze. Che cosa vuol dire fondare una disciplina esattamente?
«Sicuramente esistevano già riflessioni e iniziative su questi temi da parte di alcuni scienziati, ma si trattava più che altro di considerazioni personali che non confluivano in un qualcosa di organico, un movimento di opinione più che una vera e propria disciplina con un chiaro oggetto di studio, dei metodi, degli strumenti, una visione. Quindi, la sfida è stata quella di trasformare un movimento di opinione in un campo disciplinare vero e proprio e per far questo – non essendo esperta di filosofia e sociologia – mi sono avvalsa anche dell’aiuto e delle indicazioni di alcuni professori dell’ambito umanistico. Oggi la geoetica, nata come riflessione nell’ambito esclusivo delle geoscienze, si è rivelata capace di estendersi e legare insieme più ambiti disciplinari. E questo è fondamentale per affrontare problemi globali come i cambiamenti climatici o l’inquinamento, problemi complessi di portata planetaria, la cui soluzione richiede punti di vista multidisciplinari, che amplino e vadano oltre il campo delle geoscienze. A livello pratico, per delineare questa nuova disciplina le abbiamo assegnato una definizione, abbiamo identificato il suo oggetto di studio, i suoi valori fondanti e gli obiettivi che si prefigge, i metodi di analisi dei problemi, i suoi concetti di base e gli strumenti per la loro applicazione, e infine le abbiamo affidato una visione del mondo. Questo processo è avvenuto gradualmente ed è ancora in atto, perché come tutte le discipline scientifiche il suo sviluppo è continuo e strada facendo si avvantaggia di tutte le sue acquisizioni».
Partiamo con la definizione.
«Per definire la geoetica siamo partiti dalla definizione di “etica”, in particolare quella proposta da Aristotele, per cui l’etica consiste nella riflessione sul comportamento degli esseri umani e sui criteri in base ai quali valutare le loro scelte e azioni. E così la geoetica è stata definita come la riflessione riguardante i comportamenti e le attività umane in riferimento al sistema Terra, e la necessità di identificare i valori su cui basare la nostra interazione con il pianeta che abitiamo, i sistemi ecologici che lo compongono. Abbiamo anche condotto un’analisi etimologica della parola geoetica, scoprendo che ad esempio il prefisso geo non è connesso solo alla Terra, ma in alcune culture indica proprio la casa, la dimora».
Beh, in fin dei conti la Terra è la nostra casa…
«Proprio così: la Terra è la nostra casa comune, di cui dobbiamo aver cura, per noi stessi e per le generazioni che verranno dopo di noi».
L’etimologia di etica, invece?
«Abbiamo scoperto che la parola ‘etica’ ha un duplice significato: da un lato, ‘etica’ contiene un senso di appartenenza alla dimensione sociale (in quanto significa abitudine, regola collettiva), dall’altro, si riferisce alla sfera individuale, nel suo significato di carattere distintivo dell’individuo. E in entrambe queste due condizioni esistenziali (sociale e individuale) la sua radice etimologica richiama gli esseri umani alle loro responsabilità. Da qui siamo partiti per definire quattro domini geoetici all’interno dei quali si declina la responsabilità umana, quattro livelli di interazione che riguardano l’individuo: la responsabilità verso sé stesso, verso il suo gruppo umano di riferimento più prossimo (amici, famiglia, colleghi), la sua responsabilità nei confronti della società e delle generazioni future, e infine la responsabilità nei confronti dell’ambiente e più in generale del sistema Terra».
In quali ambiti trovano applicazione questi domini?
«In tutti gli ambiti di cui la geoetica si occupa: basti pensare alla responsabilità verso la società quando si parla di rischi, di prevenzione e di corretta informazione ai cittadini, o alla responsabilità verso le generazioni future quando ci occupiamo di sostenibilità, alle responsabilità verso l’ambiente quando trattiamo il problema dell’inquinamento, e così via».
Mi può fare un esempio di geoetica applicata ai quattro livelli di cui parlava prima?
«Partiamo dalla responsabilità dell’individuo verso sé stesso. Per uno scienziato questo significa innanzitutto onestà e integrità nel condurre la propria ricerca scientifica, la capacità di essere coerente e accurato nel suo lavoro, di impegnarsi nel mantenere sempre la trasparenza e la riproducibilità dei suoi dati, di assicurare competenza e capacità aggiornando continuamente la propria preparazione scientifica. La responsabilità nei confronti dei colleghi si pratica con l’apertura al dialogo, accettando teorie diverse dalle proprie, rispettando le regole di integrità della ricerca, e quindi riconoscendo e rispettando la proprietà intellettuale di una scoperta, condannando il plagio, o evitando conflitti di interesse che possano compromettere i risultati scientifici».
Potremmo dire che si tratta di regole di buona condotta che dovrebbero valere per qualunque scienziato in qualunque ambito.
«Sì, senz’altro. In generale, la responsabilità di uno scienziato passa per la sua consapevolezza di poter fortemente condizionare la vita delle persone con le proprie acquisizioni scientifiche. Nel caso specifico dei geologi, quando si prende una decisione avallando un qualsiasi intervento sul territorio, si deve essere consapevoli delle ripercussioni che quella scelta avrà sul tessuto sociale interessato. Ma la responsabilità di uno scienziato può riguardare anche il modo di comunicare alla società le informazioni scientifiche, soprattutto se queste informazioni possono determinare comportamenti o conseguenze per i cittadini. Per tornare ai rischi, è responsabilità dello scienziato far sì che le conoscenze arrivino in modo chiaro e corretto alle persone, che potranno usare tali conoscenze per difendersi da eventi come i terremoti o le alluvioni, che saranno messe nelle condizioni di comprendere l’importanza della prevenzione, di poter scegliere se fare un intervento sulla propria casa o meno. Non solo: uno scienziato della Terra è anche in grado di trasmettere valori fondamentali per la vita umana, come il valore del territorio, della risorsa “acqua”, della biodiversità e della geodiversità, aiutando tutti a comprendere le interconnessioni esistenti tra i tanti elementi presenti in natura: con la pandemia abbiamo sperimentato le conseguenze della perdita di biodiversità, della distruzione degli habitat naturali e del conseguente aumento della promiscuità fra specie».
Infine, la responsabilità verso l’ambiente, un tema quanto mai attuale.
«Assolutamente. Come ho già detto, ogni intervento sul territorio può alterare in modo drastico i processi naturali presenti in quell’area. Vediamo continuamente gli effetti che produciamo quando cementifichiamo il corso di un fiume, quando sbanchiamo un versante, quando costruiamo in modo dissennato negli alvei o lungo orli di scarpate: la natura si riprende i suoi spazi, sempre. Oggi più che mai dobbiamo prestare massima attenzione ai processi naturali, proprio perché la vulnerabilità urbana e strutturale dei nostri centri abitati è aumentata in funzione dei cambiamenti dei nostri stili di vita».
Secondo lei, quindi, aver creato una disciplina che raccoglie tutti questi principi di responsabilità e queste regole garantisce che cambi l’approccio, che vengano date delle informazioni alla società per quel che riguarda il rischio ambientale, la sostenibilità e in generale l’ambiente?
«Questa è un’ottima domanda. Personalmente, sono convinta che questo sia possibile, ma penso anche che qualsiasi regola, qualsiasi legge per produrre dei miglioramenti tangibili debba essere accompagnata da un cambiamento culturale della società, un cambiamento di mentalità. E questo è possibile se dietro quelle regole sono veicolati dei principi, dei valori. Il rispetto della regola è immediato se dietro essa si intravede il principio che la sostiene, se si comprende l’utilità e il vantaggio che possono derivare dal seguire quella regola.
Le faccio un esempio banale: la raccolta differenziata. Sarà più facile ottenere che un bambino si impegni a separare la plastica, dal vetro, dalla carta, se lo renderò consapevole del valore che c’è dietro quel gesto, se gli spiegherò che quel semplice gesto individuale può fare la differenza, può contribuire a rendere questo pianeta più vivibile. È questo il senso del cambiamento di mentalità che indicavo prima: riconoscere il valore che c’è dietro un comportamento, un’azione. Sostanzialmente, in ciò consiste la geoetica. Negli ultimi trent’anni, ci sono stati cambiamenti enormi nelle nostre società, non fosse altro per il fatto che oggi in molte facoltà scientifiche sono stati introdotti corsi di laurea su materie ambientali, un’offerta formativa impensabile ai tempi dei miei studi universitari. Anche per questo sono convinta che oggi la geoetica può rappresentare uno strumento formativo nuovo, utile per accompagnare gli studi delle scuole e dell’università, e non solo al fianco di materie ambientali. La geoetica ci riguarda tutti, scienziati, giornalisti, politici, legislatori. In questi anni abbiamo cercato di introdurre la geoetica nell’università. All’estero ci siamo riusciti: negli Stati Uniti, in Cile, in Portogallo, in Brasile ci sono corsi, seminari e attività sulla geoetica. L’Italia è in ritardo».
Entriamo un po’ più nel merito di questa rivista. Qual è il suo scopo?
«Questa nuova rivista scientifica è il culmine di un progetto sui temi della geoetica che dura da anni, ma allo stesso tempo è anche il punto di partenza per consolidare sempre più questa disciplina. Essa nasce proprio per soddisfare la crescente richiesta di spazi di discussione sui temi della geoetica e delle geoscienze sociali. Il suo intento è fornire una prospettiva multidisciplinare alle problematiche che abbiamo introdotto all’inizio e ripreso nel corso della nostra conversazione. È una rivista unica nel suo genere, aperta a tutti gli studiosi (scienziati o umanisti) che vogliano confrontarsi con questi temi. Grazie al supporto dell’Ingv non ci sono costi né per gli autori che sottometteranno gli articoli né per i lettori che vorranno leggerli. E in ogni caso sarà garantito un rigoroso processo di peer review, per cui ogni articolo verrà sottoposto alla revisione di referee internazionali, esperti nei diversi settori disciplinari. Da un lato la rivista contribuirà a valorizzare il ruolo delle scienze della Terra come gruppo di discipline chiave nella definizione dei problemi globali del nostro tempo, dall’altro favorirà il dialogo multidisciplinare tra diverse comunità, scientifiche e umanistiche, per offrire una prospettiva più ampia e organica su questioni di portata planetaria».
Ci saranno delle sezioni tematiche specifiche?
«Non sono previste rubriche o sezioni predefinite, i contenuti verranno definiti sulla base delle proposte. Nel caso ci venga proposto di sviluppare un particolare argomento, o di realizzare un numero speciale su uno specifico tema, sicuramente saremo aperti a considerare la pubblicazione di uno special issue dedicato. Abbiamo già una proposta di questo tipo, sui georischi e sui problemi legati alla loro comunicazione alla popolazione. In generale, direi massima libertà nelle forme editoriali che potranno essere esplorate. Detto questo, sicuramente daremo spazio alle implicazioni etiche e sociali relative ai cambiamenti globali in atto, sia quelli antropogenici –legati all’azione umana – sia quelli naturali. Ci occuperemo di gestione responsabile delle risorse naturali, e tra queste dell’acqua, del suolo, delle rocce e in particolare dell’attività mineraria. Tratteremo gli aspetti etici dell’educazione geo-ambientale ai cittadini, di gestione dell’emergenza, di responsabilizzazione nell’utilizzo delle risorse. Affronteremo argomenti spinosi di cui si sente parlare poco, come la geoingegneria, ovvero l’insieme dei metodi e degli interventi tecnologici per cambiare il clima, oppure il deep see mining, ovvero lo sfruttamento dei sedimenti che si trovano sul fondo agli oceani e dei rischi connessi all’esplorazione dei fondali profondi».
Lei pensa che la geoingegneria sia davvero una soluzione?
«A mio avviso, è un modo deresponsabilizzante di affrontare la questione del riscaldamento globale e della conseguente crisi climatica. È chiaro che non possiamo pensare di fare a meno della tecnologia per risolvere problemi ambientali ormai devastanti, ma scegliere di modificare artificialmente il clima invece di impegnarci per ridurre le emissioni di gas serra e l’inquinamento significa non affrontare il problema alla radice: certamente è più facile affidarci alla geoingegneria piuttosto che cambiare i nostri stili di vita. La tecnologia può senz’altro aiutarci, ma non può costituire il giustificativo per continuare a comportarci come stiamo facendo da mezzo secolo a questa parte».
Giusto per essere chiari, si tratta di una rivista scientifica, giusto?
«Sì, esatto, è un Journal scientifico. Gli articoli, scritti in inglese, vengono pubblicati singolarmente, dopo essere stati sottomessi, revisionati e accettati dagli autori e dai revisori. Ma soprattutto è totalmente free of charge, completamente gratuito per gli autori e i lettori. Questo è un punto nevralgico del mondo editoriale scientifico: nella maggior parte dei casi, per pubblicare o accedere ad un articolo ci sono dei costi da affrontare, sia per i singoli ricercatori che per i lettori. Questo fa sì che chi non può permettersi tali i costi è automaticamente escluso. Chi non ha alle spalle un’istituzione o un ente in grado di coprire i costi, gli studiosi di paesi con scarse risorse o i giovani all’inizio della carriera spesso hanno difficoltà a pubblicare o ad accedere alle pubblicazioni. E in tal modo non possono contribuire al dibattito scientifico. Nel campo della geoetica sono soprattutto i paesi dell’Africa, del Sud America o del Sud Est asiatico a presentare i problemi più gravi, ambientali e sociali, problemi che nei nostri paesi sviluppati non possiamo neanche immaginare: l’impiego di bambini nell’attività estrattiva, la mancanza di ogni diritto per le lavoratrici nelle miniere, situazioni di inquinamento incredibili connesse alle acque reflue di discarica. Ebbene: proprio gli studiosi di questi paesi hanno le maggiori difficoltà a pubblicare, non hanno accesso alle riviste scientifiche per questioni economiche. La rivista si propone anche di dar voce a questi studiosi, ovviamente sempre nel rispetto della qualità scientifica. In ogni caso, saranno previsti anche articoli più divulgativi, per soddisfare le aspettative di un pubblico meno esperto, in particolare studenti e insegnanti».
Fra le motivazioni che hanno portato alla nascita di questa rivista, quanto ha pesato – se ha pesato – la vicenda giudiziaria legata al terremoto dell’Aquila?
«Il terremoto dell’Aquila del 2009 e la vicenda giudiziaria che ne è seguita sono stati paradigmatici per la geoetica. Sicuramente del problema della comunicazione del rischio alla popolazione se ne parlava da tempo, ma la vicenda dell’Aquila – e l’iniziale condanna di sette scienziati per negligenza nella analisi del rischio – ha messo in luce le gravi conseguenze di una cattiva interrelazione fra i diversi soggetti che dovrebbero agire in massima sintonia in uno scenario di rischio (mass media, scienziati, politici, ecc.) e della forviante informazione ai cittadini. All’Aquila ci fu una grande confusione di ruoli e responsabilità. E questo senz’altro non lasciò indifferente chi come me si occupava di geoetica. Per questo motivo, come le dicevo, è importante comprendere che l’educazione e la comunicazione ai cittadini, la corretta definizione di responsabilità, ruoli, procedure e protocolli è fondamentale per una efficace gestione dei rischi. Per fare un esempio, in ambito sanitario esistono delle procedure e dei protocolli prestabiliti che garantiscono i cittadini e tutelano i medici. La stessa cosa dovrebbe accadere nel caso di un terremoto. Quella dell’Aquila è stata una vicenda molto triste, per tutti, ma anche per gli effetti negativi che ha prodotto nell’opinione pubblica, in termini di credibilità, fiducia nella scienza. Non possiamo permetterci di ignorare quel che è successo».
Lei pensa che a distanza dei tredici anni da quanto è avvenuto le cose siano diverse o abbiano cominciato a cambiare? In altre parole, una situazione del genere ora verrebbe gestita diversamente?
«Me lo auguro. Sicuramente è stato fatto molto, ma temo anche che per avere dei cambiamenti concreti ci sia bisogno di tempo, tempo per attuarli a livello tecnico e pratico. Occorre tempo anche per ottenere la fiducia nelle istituzioni e nella scienza da parte delle persone che hanno vissuto quegli eventi, fiducia che è stata incrinata dopo l’Aquila. Gli studi e le strategie di comunicazione del rischio, non solo relativamente ai terremoti, ma anche alle eruzioni vulcaniche o agli tsunami, stanno andando avanti, e negli ultimi anni i progressi in questo campo sono molti: oggi abbiamo anche un centro di allerta tsunami, parte di una rete di monitoraggio e allarme che si estende nel Mediterraneo. Dunque: si sta lavorando molto, ma ci vorrà un po’ di tempo».
Prendo quest’ultima frase e la applico alla questione climatica e alla sostenibilità ambientale. Il problema, rispetto a questo, è che probabilmente non c’è tempo di aspettare per ottenere risultati tangibili. Quindi, secondo lei, quanto può aiutare la diffusione di concetti e la creazione di una consapevolezza anche rispetto ai temi geoetici?
«Personalmente, le ritengo fondamentali, nonostante debba aggiungere che in questo momento storico sul clima ho una visione molto pessimista. Gli scenari politici attuali si aggravano di ora in ora e questo mi porta a credere che il raggiungimento di una governance internazionale comune, di un’azione politica condivisa sia sempre più lontano. Vanno poi considerati i problemi legati al fatto che la situazione climatica attuale non è stata determinata da tutti i paesi del mondo allo stesso modo e con lo stesso peso. Infine, c’è la guerra in Ucraina. Qualcuno afferma che questo conflitto accelererà la transizione energetica, perché ci costringerà forzosamente ad abbandonare le fonti energetiche fossili, ma io non credo che questo avverrà. La guerra non ha fatto altro che aumentare le tensioni geopolitiche, allontanando ancora di più i governi. E comunque, al di là di questo, sviluppare nuove tecnologie e ridefinire i paradigmi economici sono attività che ancora una volta richiedono tempo. Sono sicura che la geoetica sarebbe in grado di sfondare alcuni dei muri eretti per rimandare le decisioni e accelerare alcuni processi mentali. Tuttavia sono anche scettica sulle nostre capacità (soprattutto in Italia) di superare abitudini e pregiudizi per raggiungere un bene comune. I movimenti ambientalisti sono cresciuti tantissimo negli ultimi anni, ma il problema di fondo è che abbiamo ancora una visione troppo “antropocentrica” nel mondo occidentale, non riusciamo ancora a concepirci come parte integrante della natura e a comprendere che distruggere la natura equivale a minacciare la sopravvivenza della nostra stessa specie. Nella lingua tradizionale di alcune comunità indigene del British Columbia, in Canada, non esiste un vocabolo per indicare la natura».
In che senso?
«La parola natura non esiste perché, in un certo senso, non serve: essi stessi sono natura e si percepiscono tali, per cui non hanno bisogno di tradurre in una parola qualcosa che li comprende, di cui sono parte. Dovremmo anche noi arrivare a comprendere di far parte del sistema natura. Ma ci sono molte questioni in gioco, economiche e politiche, che mi fanno essere pessimista: non vedo la volontà politica di affrontare i problemi globali. E anche a livello dei singoli individui, c’è qualcosa che proprio non vogliamo vedere, per cui questi problemi ci sembrano lontani, qualcosa che possiamo ancora procrastinare».