Due astronomi e due articoli per scoprire, teorizzare e spiegare una nuova tecnica per misurare la massa e le dimensioni dei buchi neri supermassicci, anche quelli più “piccoli” e ospitati in galassie lontane. Fra gli ingredienti – immancabile, puntuale e unica nel suo saper spiegare i fenomeni più esotici dell’universo – la relatività generale. Il punto di partenza, invece, sono i dati del telescopio spaziale Kepler e un presunto errore nelle simulazioni. Gli articoli dei due astronomi della Columbia University sono pubblicati su Physical review letters e Physical review D.
Tutto comincia con la ricerca di pianeti extrasolari, attraverso la tecnica dei transiti, da parte del telescopio spaziale Kepler della Nasa. Questa tecnica si usa per rivelare la presenza di un pianeta in orbita attorno a una stella mediante le variazioni di luminosità che il passaggio del pianeta davanti alla stella induce sulla stessa (in modo analogo a un’eclissi). Al centro di una galassia lontana, invece, il telescopio ha rilevato variazioni di luminosità in corrispondenza di quella che gli astronomi ritengono essere una coppia di buchi neri in fusione. La galassia, chiamata ‘Spikey’ proprio in virtù dei picchi di luminosità innescati dai due sospetti buchi neri, ha suscitato la curiosità dei due ricercatori che hanno costruito una simulazione al computer per studiare il sistema. Si tratta di una sorta di “tecnica dei transiti relativistica”. Il fenomeno fisico che sta dietro l’aumento di luminosità osservato si chiama lensing gravitazionale, e quel che accade è che – a causa dell’intenso campo gravitazionale – ciascun buco nero funziona come una vera e propria lente rispetto al compagno quando questo transita, in prospettiva, fra noi e il buco nero “lente”.
Il modello del sistema, costruito al computer grazie alle ricette della relatività generale di Einstein, mostrava però una stranezza: nella curva di luce della coppia simulata di buchi neri compariva, sempre, un periodico quanto inatteso calo di luminosità ogni volta che uno dei due buchi neri transitava di fronte all’altro. Una variazione puntuale che corrisponde strettamente al tempo necessario al buco nero più vicino all’osservatore per passare davanti all’ombra del buco nero posteriore. Non poteva essere un caso.
La potenza di questo “segnale nascosto” durante il picco di luce prodotto dal lensing gravitazionale (si vede bene nella rappresentazione sulla sinistra), è che esso porta con sé informazioni fondamentali sulle proprietà dei due buchi neri. L’attenuazione della luce, infatti, può durare da alcune ore a pochi giorni, a seconda di quanto sono massicci i buchi neri e quanto strettamente sono intrecciate le loro orbite. Se si misura quanto dura il calo, quindi, si può stimare la dimensione e la forma dell’ombra proiettata dall’orizzonte degli eventi del buco nero – il punto di non ritorno, dove nulla sfugge, nemmeno la luce – e da qui anche la massa.
La potenzialità di questa tecnica, scrivono i ricercatori, è proprio il fatto di poter misurare direttamente l’orizzonte degli eventi del buco nero senza che sia necessario risolverlo spazialmente. Ottenere immagini dirette dell’ombra di un buco nero – come quella fatta per M87, per intenderci – richiede un enorme sforzo in termini di tempo, di strumenti e di elaborazione dei dati, e per di più è una tecnica applicabile solo a buchi neri molto grandi e relativamente vicini. Il metodo proposto, invece, prevede il monitoraggio della luminosità dei buchi neri nel tempo, e non richiede che essi siano risolti spazialmente: per questo, può essere applicabile anche a coppie di buchi neri lontani in altre galassie. Buchi neri più piccoli di M87 e in galassie più lontane.
Ci sono, tuttavia, due requisiti fondamentali affinché questa nuova tecnica sia applicabile: il primo, l’abbiamo detto, è che la misura non può essere effettuata su singoli buchi neri, ma deve esserci una coppia di oggetti in orbita uno intorno all’altro; il secondo, è che il sistema sia osservato, dalla Terra, a un angolo vicino al piano dell’orbita, in modo da poter percepire le variazioni di luminosità generate dal lensing gravitazionale quando uno dei due buchi neri passa di fronte all’altro. Proprio come accade quando si cerca un sistema planetario mediante la tecnica dei transiti.
Il caso della galassia ‘Spikey’, comunque, non è chiuso: i ricercatori sono alla ricerca di dati provenienti da altri telescopi per confermare che il calo di luminosità registrato nei dati di Kepler sia dovuto a una coppia di buchi neri che si fondono. Se tutto ciò dovesse risultare vero, considerando che le osservazioni sono supportate anche dalle previsioni teoriche e dalle simulazioni, la tecnica potrebbe subito essere applicata e testata su una manciata di altre coppie sospette di buchi neri supermassicci in fusione.
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