Le sonde spaziali che esplorano il Sistema solare hanno solitamente un obiettivo ben preciso – che si tratti di un pianeta, una luna, un asteroide, il Sole o altri corpi che ruotano attorno ad esso – per il quale la missione viene pianificata con largo anticipo e nei minimi dettagli, facendo affidamento sulla meccanica celeste per calcolare la traiettoria e raggiungere il target. Fa eccezione Comet Interceptor, missione appena “adottata” dallo Science Programme Committee dell’Agenzia spaziale europea (Esa), che un target ancora non ce l’ha.
O meglio, l’obiettivo c’è: studiare una cometa primordiale, di quelle che si fiondano verso le regioni interne del Sistema solare direttamente dalla nube di Oort, la periferia del nostro piccolo angolo di universo. Ma la cometa in questione non è ancora stata scoperta.
Al contrario delle comete periodiche – che sono arrivate nei pressi del Sole in epoche relativamente recenti e hanno già completato diverse orbite intorno alla nostra stella, la cui radiazione ne ha in parte modificato la struttura – le comete al loro primo passaggio ravvicinato nel Sistema solare interno custodiscono praticamente intatto il materiale originario da cui si sono formati il Sole e la sua corte di pianeti. Le sonde cacciatrici di comete, come Rosetta dell’Esa o Deep Impact della Nasa, hanno visitato finora solo quelle periodiche proprio perché i loro moti prevedibili permettono di programmare una missione spaziale, impresa che richiede molti anni di studio e progettazione prima del lancio e delle operazioni vere e proprie. Le comete primordiali, invece, piombano nel nostro vicinato cosmico con un preavviso di qualche anno al massimo, insufficiente per sviluppare da zero una missione spaziale dedicata.
La soluzione è Comet Interceptor, missione Esa in collaborazione con la Japan Aerospace Exploration Agency (Jaxa). Si tratta di una missione di classe F (fast) il cui sviluppo richiede circa otto anni, approfittando di un passaggio a bordo del razzo che porterà nello spazio un altro satellite europeo, il telescopio spaziale Ariel, nel 2029. La destinazione, per entrambe le missioni, è il punto Lagrangiano L2, a un milione e mezzo di chilometri dalla Terra, nella direzione opposta rispetto al Sole – ottimo luogo per le osservazioni astronomiche, dove si trovano già svariati satelliti come Gaia e Jwst. Una volta lì, Comet Interceptor resterà su un’orbita temporanea in attesa che venga avvistata una cometa primordiale interessante o addirittura un oggetto interstellare come il famoso ‘Oumuamua che visitò il Sistema solare nel 2017.
L’adozione della missione da parte dell’Esa, formalizzata lo scorso 8 giugno, pone fine alla fase di studio. «Dopo aver trascorso gli ultimi anni a ideare e sviluppare il concetto di Comet Interceptor, ora siamo pronti per portare la missione alla fase successiva, selezionando l’azienda capofila e avviando la fase di implementazione», commenta Nicola Rando, project manager di Comet Interceptor all’Esa. La missione sarà formata da una navicella principale e due sonde, che accerchieranno la cometa per studiarla sotto diverse angolazioni e costruirne un modello 3D. Ciascuno dei tre elementi sarà dotato di una serie di strumenti scientifici per indagare la natura dinamica della cometa: l’Esa guiderà lo sviluppo della navicella principale e di una delle sonde, i cui strumenti saranno costruiti principalmente dall’industria europea, mentre l’altra sonda sarà sviluppata dalla Jaxa.
«Comet Interceptor è una missione fast dell’Esa, quindi non certo paragonabile a Rosetta in termini di risorse – potenza, massa, durata della fase scientifica, budget – e di conseguenza anche della mole e varietà delle misure attese. Tuttavia la continuità temporale tra la fine di Rosetta e lo sviluppo di Comet Interceptor permetterà di massimizzare il ritorno scientifico, ottimizzare la tecnologia del payload in tempi relativamente brevi e prevedere un profilo di missione con buoni margini per la riuscita dell’ambizioso flyby in formazione dei tre spacecraft, sfruttando l’eredità tecnologica e scientifica di Rosetta», spiega a Media Inaf Alessandra Rotundi, professoressa all’Università Parthenope di Napoli e associata all’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), che in Comet Interceptor ha il ruolo di national co-principal investigator per l’Italia. «Si tratta di un’ottima occasione e investimento per non perdere il know-how tecnico e scientifico acquisito con Rosetta».
Il contributo italiano alla missione vede l’impegno dell’Agenzia spaziale italiana, Inaf, Cnr e diverse università, che partecipano all’impresa contribuendo allo sviluppo di due strumenti parte del payload: il Dust Impact Sensor and Counter (Disc), il cui responsabile è Vincenzo Della Corte dell’Inaf, sviluppato a partire da uno dei sottosistemi di Giada (uno degli strumenti della missione Rosetta), che fa parte della Dust Field and Particles suite, una serie di strumenti dedicati a caratterizzare la polvere nell’ambiente della cometa target; e l’Entire Visible Sky (EnVisS), di cui è responsabile Vania Da Deppo, ricercatrice presso l’Istituto di fotonica e nanotecnologie (Ifn) del Cnr e associata Inaf, un imager multispettrale e polarimetrico all-sky che acquisirà immagini della polvere presente nella chioma della cometa facendone una ricostruzione 3D. «Inoltre, gli italiani hanno un ruolo importante nello sviluppo del modello di chiome cometarie, sulle basi di quello sviluppato per Rosetta e notevolmente migliorato dopo le misure “sul campo”, che permette di fare previsioni importanti per la sicurezza di spacecraft e payload», aggiunge Rotundi.
Tra i preparativi, non poteva mancare un’intensa campagna di osservazioni in cerca della cometa che la missione andrà a esplorare, che vede impegnate astronome e astronomi italiani.
Già dalla primavera 2022 è in corso un programma osservativo che coinvolge due importanti infrastrutture Inaf, il Telescopio nazionale Galileo a La Palma, Isole Canarie, e il telescopio Copernico presso la stazione osservativa di Cima Ekar ad Asiago.
«Tramite osservazioni e modelli teorici, ci occupiamo di caratterizzare comete “nuove” a distanze superiori alla linea di attività dell’acqua (circa 4 unità astronomiche), dove l’attività di tipo cometario è guidata da ghiacci più volatili come ad esempio il monossido di carbonio (CO)», commenta Elena Mazzotta Epifani, ricercatrice Inaf a Roma e coordinatrice di un gruppo di ricercatori dell’Inaf, Università Parthenope, Asi e Cnr-Ifn impegnato in queste osservazioni nell’ambito dell’accordo Asi-Inaf in sostegno alla selezione del target della missione. «Lo scopo è quello di comprendere meglio il funzionamento di questa diversa attività e caratterizzarne l’evoluzione lungo l’orbita “inbound” [diretta verso il Sole; ndr] allo scopo di prevedere il comportamento dei possibili target della missione, scoperti quando molto lontani, e contribuire così alla selezione del target ottimale per la stessa».
Anche il Rubin Observatory, attualmente in costruzione sulle Ande cilene, sarà chiave nella ricerca del target di Comet Interceptor, grazie alla Legacy Survey of Space and Time (Lsst), il progetto di scansione massiccia del cielo dell’emisfero australe che terrà l’osservatorio impegnato per i primi dieci anni.
«La survey Lsst del Vera C. Rubin Observatory, che a partire dal 2023 fotograferà l’intero cielo australe ogni tre notti in molteplici bande e a una profondità senza precedenti, ha un enorme potenziale per la scoperta di possibili target per Comet Interceptor», spiega Laura Inno, ricercatrice presso l’Università Parthenope e associata Inaf, che coordina il team italiano formato da co-investigator della missione, direttamente coinvolto nel progetto statunitense Lsst e responsabile, tra l’altro, della produzione di software automatico di caratterizzazione avanzata di oggetti attivi da includere nella pipeline della survey, come parte dell’accordo Lsst-Inaf che garantisce al team l’accesso diretto ai dati. «Nei suoi dieci anni di operazione, Lsst riuscirà a decuplicare il numero di oggetti del Sistema solare noti per ciascuna famiglia, incluso comete di lungo periodo e interstellari».