Il primo fu Secco. E non stiamo parlando di Secco Jones, il bullo con il berretto di lana che sparge il terrore nella scuola di Bart Simpson, bensì di Secco 1: un enigmatico e solitario insieme di stelle blu scoperto nel 2015 nell’ammasso della Vergine da un team guidato da Michele Bellazzini dell’Inaf di Bologna. Enigmatico perché non si capiva bene cosa fosse: una minuscola galassia nana popolata solo da una manciata di giovani stelle? Una nube di formazione stellare non collegabile ad alcuna galassia? O che altro?
Per rispondere sarebbe stato utile trovare altri oggetti con proprietà simili a Secco 1. È quel che è riuscita a fare una squadra internazionale di astronomi guidata da Michael Jones e David Sand della University of Arizona e, di nuovo, da Bellazzini. Anzitutto hanno setacciato immagini ottiche dell’ammasso della Vergine individuando cinque candidati promettenti. Per verificare che in effetti avessero la stessa natura di Secco 1, li hanno poi osservati con Hubble, il Vla e il Vlt. «Uno era un candidato spurio, un piccolo gruppo di galassie blu, ma gli altri quattro», spiega Bellazzini a Media Inaf, «erano in effetti oggetti molto simili a Secco 1, provando che non si tratta di un unicum, ma che esiste una classe di oggetti di questo tipo».
Una nuova classe di sistemi stellari, dunque. Con caratteristiche mai riscontrate prima in altri insiemi di stelle. Per prima cosa, si tratta di sistemi stellari formati praticamente da null’altro che giovani stelle blu, distribuite in modo molto irregolare. Ma il tratto più sorprendente è che questi sistemi sembrano esistere in completa solitudine, senza alcun legame gravitazionale con una potenziale galassia madre, viste le enormi distanze che li separano dalle galassie più vicine – almeno 300mila anni luce.
«Si tratta di minuscole nuvolette di idrogeno neutro nell’ammasso della Vergine nelle quali è in corso formazione stellare», osserva Bellazzini. «Attraverso gli spettri ottici delle regioni HII possiamo misurare l’abbondanza di ossigeno, che per gli oggetti star-forming è il fondamentale tracciante di metallicità. Quel che si trova è che la loro metallicità è troppo alta per la loro massa: è piuttosto quella che normalmente hanno galassie di massa stellare oltre diecimila volte più alta. Questo implica che si tratti di nuvolette di gas strappate da galassie di quella dimensione».
Strappate in che modo? Ci sono essenzialmente due modi per sottrarre gas a una galassia. Il primo è l’interazione mareale: è ciò che si verifica quando due galassie, incrociandosi, si “scippano” gas e stelle attraverso la gravità. Il secondo modo è il ram pressure stripping: in questo caso l’azione è esercitata non dalla gravità bensì dalla pressione del plasma di cui è fatto l’ammasso – il mezzo intracluster – che sottrae il gas alla galassia esercitando una forza simile a quella dell’aria sul palmo d’una mano tenuta fuori dal finestrino di un’auto in corsa. Allo stesso modo, il mezzo intracluster caldo strappa il gas dai dischi galattici che lo attraversano, come se fosse un vento.
Gli autori dello studio propendono per questa seconda spiegazione, la ram pressure, perché è quella che meglio riesce a spiegare la rapidità con la quale questi sistemi stellari sono stati isolati dalla galassia d’appartenenza. La forza mareale richiederebbe infatti tempi molto maggiori di quelli entro i quali riesce ad agire la ram pressure.
Si tratta comunque, in entrambi i casi, di meccanismi che negli ammassi di galassie sono all’opera in continuazione. Dunque cosa c’è di strano, questa volta? «C’è che in tutti i casi noti, siano essi da ram pressure che da marea, le nuvolette si trovano sempre in prossimità delle galassie genitrici, normalmente lungo strutture filamentari che le connettono alle galassie stesse come i tentacoli della medusa. Queste invece», spiega Bellazzini, «sono sole e isolatissime. Sono state capaci di navigare nell’ammasso della Vergine per centinaia di milioni di anni, arrivando così lontano dalla galassia genitrice che non siamo più in grado di ritrovarla. E dopo tutto questo navigare sono ancora in grado di formare stelle. In un ultimo respiro, probabilmente: alcune di quelle che vediamo conservano un po’ di idrogeno neutro, altre lo hanno esaurito, benché abbiano formato stelle fino a oggi. Riteniamo che questi siano momenti di un percorso evolutivo in cui il gas va lentamente perduto, un po’ per l’interazione col mezzo intracluster un po’ convertendolo in stelle».
La previsione degli astronomi è che prima o poi questi sistemi stellari si divideranno in singoli ammassi stellari, per poi diffondersi nell’ammasso di galassie che li ospita.
Per saperne di più:
- Leggi su arXiv il preprint dell’articolo “Young, blue, and isolated stellar systems in the Virgo Cluster. II. A new class of stellar system”, di Michael G. Jones, David J. Sand, Michele Bellazzini, Kristine Spekkens, Ananthan Karunakaran, Elizabeth A. K. Adams, Giuseppina Battaglia, Giacomo Beccari, Paul Bennet, John M. Cannon, Giovanni Cresci, Denija Crnojevic, Nelson Caldwell, Jackson Fuson, Puragra Guhathakurta, Martha P. Haynes, John L. Inoue, Laura Magrini, Ricardo R. Munoz, Burcin Mutlu-Pakdil, Anil Seth, Jay Strader, Elisa Toloba e Dennis Zaritsky