I primi esseri viventi che hanno popolato il nostro pianeta vivevano in un ambiente principalmente oceanico, senza uno strato di ozono che li proteggesse dalle radiazioni solari. Per sopravvivere, questi organismi primordiali, tra cui batteri e archeobatteri, hanno sviluppato particolari biomolecole fotosensibili, in grado di trasformare la luce solare nell’energia necessaria per alimentare i processi cellulari: le batteriorodopsine.
Queste macromolecole sono costituite da una componente proteica inserita nella membrana della cellula, l’opsina, e da una piccola molecola sensibile alla luce, l’11-cis-retinale. Quando il retinale assorbe un fotone, cambia forma, in gergo si dice che isomerizza: una modifica conformazionale che, per una sorta di effetto domino, provoca una variazione strutturale nell’opsina, che guida direttamente il trasporto ionico attraverso la membrana cellulare, generando una forza protonica che può essere imbrigliata per generare energia chimica tramite la sintesi di Atp.
Le rodopsine non sono però solo esclusiva degli organismi primordiali: nella retina dei nostri occhi, i coni e bastoncelli che ci consentono di distinguere tra luce e buio e di vedere a colori, reagiscono alla luce proprio grazie a una rodopsina. Inoltre, sono ampiamente distribuite tra gli organismi in vari ambienti terrestri. L’Halobacterium salinarum, un archeobatterio che colonizza le saline, è un modello per lo studio delle funzioni delle batteriorodopsine.
Comparando la sequenza amminoacidica di batteriorodopsine esistenti con la sequenza di proteine ancestrali ottenute tramite intelligenza artificiale, e combinando questi dati con le caratteristiche spettrali modellate della luce dell’ambiente terrestre precambriano – l’epoca della formazione del nostro pianeta, all’incirca 4.6 miliardi di anni fa – un team di ricercatori guidati dal Nasa Center for Early Life and Evolution ha ricostruito la storia evolutiva di questa famiglia di proteine fotoattive. Una ricostruzione che potrebbe servire da guida per comprendere la paleoecologia e l’abitabilità della Terra primitiva e aiutarci a riconoscere biofirme su altri pianeti con atmosfere simili a quelle possedute dalla Terra primordiale. I risultati dello studio sono riportati in un articolo pubblicato sulla rivista Molecular Biology and Evolution.
«Sulla Terra primordiale l’energia potrebbe essere stata molto scarsa» spiega Edward Schwieterman, astrobiologo dell’Università della California, Riverside (Usa), e co-autore dello studio. «Batteri e archaea hanno scoperto come utilizzare l’abbondante energia del Sole senza le complesse biomolecole necessarie per la fotosintesi».
Nella ricerca, in particolare, le analisi della sequenza proteica delle rodopsine esistenti e ancestrali filogeneticamente dedotte sono state utilizzate per vincolarne le possibili funzioni. Utilizzando poi un algoritmo di apprendimento automatico, che modella la relazione tra i picchi di assorbimento spettrale e la sequenza di amminoacidi, è stata prevista la lunghezza d’onda massima di assorbimento della luce da parte di queste proteine.
«La vita come la conosciamo è un’espressione tanto delle condizioni del nostro pianeta quanto della vita stessa» dice Betul Kacar, astrobiologa dell’Università del Wisconsin-Madison, tra i firmatari della pubblicazione. «In questo studio, abbiamo utilizzato antiche sequenze di Dna di una molecola e questo ci ha permesso di collegarci alla biologia e all’ambiente del passato».
«È come prendere il Dna di molti nipoti per riprodurre quello dei loro nonni» aggiunge Schwieterman. «La differenza è che in questo il Dna non è dei nonni ma di piccoli esseri che hanno vissuto miliardi di anni fa, in ogni parte mondo».
Le rodopsine moderne assorbono la luce blu, verde, gialla e arancione. Tuttavia, secondo i ricercatori, le antiche rodopsine dovevano assorbire principalmente la luce blu e verde. Poiché infatti la Terra primitiva non aveva ancora il vantaggio di uno strato di ozono protettivo, il team teorizza che miliardi di anni fa i microbi vivessero a diversi metri di profondità nella colonna d’acqua per proteggersi dalle intense radiazioni Uv-B in superficie. E poiché la luce blu e verde penetrano meglio l’acqua, è probabile che le prime rodopsine dei primi esseri viventi assorbissero principalmente questi colori. «Questa potrebbe essere la migliore combinazione per essere schermati e ancora in grado di assorbire la luce per produrre energia», nota Schwieterman.
Una teoria, questa, supportata dai risultati dello studio, secondo cui le rodopsine microbiche ancestrali probabilmente agivano come pompe protoniche sensibili alla luce verde, cosa che avrebbe consentito alle antiche forme di vita di occupare le profondità in una colonna d’acqua o in un biofilm in cui le lunghezze d’onda ultraviolette erano attenuate. Secondo lo studio, inoltre, la diversificazione delle funzioni della rodopsina e la capacità di assorbire lunghezze d’onda diverse potrebbe essere avvenuta successivamente, dopo il Grande evento di ossidazione, un periodo caratterizzato dall’accumulo nell’atmosfera di ossigeno prodotto dai primi organismi fotosintetici che intanto erano comparsi sulla Terra.
«Il nostro studio dimostra per la prima volta che le storie degli enzimi sono suscettibili di ricostruzione evolutiva in modi che le biofirme molecolari convenzionali non sono in grado di fare» aggiunge Kacar.
«La Terra primordiale era un ambiente alieno rispetto al mondo di oggi», conclude Schwieterman. «Capire come gli organismi sono cambiati nel tempo e in ambienti diversi ci insegnerà cose cruciali su come cercare e riconoscere la vita altrove».
Per saperne di più:
- Leggi su Molecular Biology and Evolution l’articolo “Earliest Photic Zone Niches Probed by Ancestral Microbial Rhodopsins” di Cathryn D. Sephus, Evrim Fer, Amanda K. Garcia, Zachary R. Adam, Edward W. Schwieterman, Betul Kacar