Si è appena alzato in volo dalla base spaziale europea di Kourou, alle 15.13 ora italiana di oggi, mercoledì 13 luglio, il nuovo lanciatore Vega-C, con a bordo il satellite scientifico dell’Agenzia spaziale italiana Lares2. Si tratta di un lancio di qualifica, durante il quale il vettore realizzato da Avio, negli stabilimenti italiani di Colleferro, rilascerà in orbita sei minisatelliti selezionati dall’Agenzia spaziale europea (Esa), fra i quali anche Astrobio CubeSat: un vero e proprio laboratorio miniaturizzato – interamente realizzato in Italia – basato su una tecnologia innovativa capace di eseguire autonomamente esperimenti bioanalitici nello spazio, con una serie di potenziali applicazioni in missioni di esplorazione planetaria sia umana che robotica.
Ne abbiamo parlato con John Brucato, astrobiologo all’Inaf di Firenze e responsabile del progetto, con la collaborazione di Augusto Nascetti della Scuola di ingegneria aerospaziale della Sapienza di Roma e di Mara Mirasoli del dipartimento di chimica dell’Università di Bologna, sotto la supervisione di Simone Pirrotta e Gabriele Impresario dell’Asi
Cosa significa il lancio di AstroBio CubeSat per l’astrobiologia?
«CubeSat è una missione dimostrativa che permette di testare nello spazio alcune tecnologie innovative, in particolare la cosiddetta lab-on-chip e anche la possibilità di maneggiare liquidi nello spazio. Si tratta di un test che permetterà di validare tecnologie per l’individuazione di biomolecole nello spazio. In particolare all’interno del satellite è stata installata una camera sigillata entro la quale sono contenuti dei reagenti, delle pompe e una serie di tubi: in sostanza un sistema fluidico che permette di spostare e manipolare questi liquidi e farli reagire con le molecole biologiche. Questa volta le abbiamo messe noi apposta ma l’idea è di poter rivelare queste biomolecole nello spazio, nel caso fossero presenti su una superficie planetaria, attraverso la tecnica della chemiluminescenza, che permette di far emettere luce alla biomolecola in presenza di una particolare reazione, come in Csi quando si vedono le macchie di sangue illuminarsi di blu-violetto.»
Accennava alla tecnologia lab-on-chip: di che si tratta?
«Con tecnologia lab-on-chip si intende proprio un laboratorio su un piccolo dispositivo! Si tratta di una miniaturizzazione estrema di laboratori che di solito sono di grandi dimensioni come quelli che abbiamo nei centri di ricerca, ridotti ai minimi termini in un chip di pochi centimetri. La tecnologialab-on-chip permette di ridurre tantissimo le procedure e i protocolli per rivelare le biomolecole nello spazio. È una tecnica usata da alcuni anni e che prende sempre più piede; tecniche analoghe sono quelle dei tamponi veloci per il Covid, in quel caso realizzati su strip di carta di cellulosa in cui avvengono reazioni che sono in grado di rivelare la presenza di un virus».
Quando vi aspettate i primi risultati?
«Arriveranno subito. Dopo pochi secondi dal lancio il satellite inizierà a eseguire i sei esperimenti previsti, a distanza di un certo tempo uno dall’altro. Inoltre il satellite contiene alcuni strumenti secondari, come per esempio retroriflettori usati per il tracciamento del satellite da terra con dei laser, e un payload secondario che permetterà di testare una specifica tecnologia elettronica in ambiente spaziale. Bisogna ricordare che il satellite va in una zona estremamente difficile: a una quota di circa 5800 chilometri da Terra e inclinato di 70 gradi verso il polo terrestre. Questa è la zona delle fasce di Van Allen, una regione bombardata da un flusso molto intenso di particelle cariche in arrivo dal Sole. L’idea è che andando in questa zona il satellite possa sperimentare la stessa quantità di radiazione così come avverrebbe in un viaggio interplanetario verso Marte, Giove, Europa o Encelado».
Quanto tempo ha richiesto la realizzazione di AstroBio?
«Il progetto è iniziato due anni e mezzo fa grazie all’opportunità che l’Esa ha dato in concomitanza con il lancio dell’esperimento dell’Infn Lares2 e in occasione del lancio inaugurale del lanciatore di Vega-C, a forte partecipazione italiana, dando la possibilità di mettere a bordo alcuni CubeSat senza costi di lancio. L’Esa ha aperto una call e il nostro CubeSat è stato selezionato. È da allora, circa due anni e mezzo, che ci stiamo lavorando».
Quali sono le vostre aspettative?
«Ci aspettiamo di vedere la stabilità delle biomolecole e dei reagenti in condizioni spaziali estreme come sono le fasce di Van Allen. Vorremmo capire se il sistema di rivelazione funziona anche in queste condizioni. Si tratta di una delle prime volte in cui vengono utilizzati liquidi nello spazio come modo per sviluppare tecnologie per l’utilizzo di fluidi in condizioni spaziali. Ci aspettiamo di vedere la risposta dello strumento in condizioni spaziali per poter poi usare la stessa tecnologia su Marte, Europa o Encelado».
Tanto lavoro e tante emozioni prima del lancio…
«È stata una grande fatica perché abbiamo realizzato tutto il satellite “in casa”. C’è stata la partecipazione di una sola azienda che ci ha fornito una scheda elettronica, mentre tutto il satellite è stato costruito da noi con la partecipazione degli studenti. C’è stato un grande coinvolgimento ed è stata una grande prova per le nuove generazioni che si affacceranno a questo mondo delle missioni spaziali».
Segui il lancio sul canale YouTube dell’Esa