Un’immagine, recita l’adagio, vale più di mille parole. E un suono? C’è chi pensa che valga ancora di più. Caratterizzato da molteplici parametri – volume, ritmo, altezza, timbro, posizione in un sistema stereofonico – il suono si presta naturalmente a rappresentare diverse dimensioni contemporaneamente. Se ne è accorta anche la comunità astronomica, che da una decina d’anni fa ricorso sempre più spesso alla sonificazione, ovvero la trasposizione in suono di un insieme di dati.
Secondo uno studio pubblicato oggi su Nature Astronomy, guidato da Anita Zanella dell’Istituto nazionale di astrofisica e Chris Harrison dell’Università di Newcastle (Regno Unito), sarebbero molteplici i benefici nell’adottare la sonificazione per rappresentare dati e concetti astronomici. Dall’intrinseca multi-dimensionalità alla possibilità di ascoltare suoni diversi simultaneamente, fino alle superiori prestazioni dell’orecchio umano rispetto all’occhio nella percezione di serie temporali di dati, l’uso del suono come alternativa alle visualizzazioni nella ricerca astronomica appare assolutamente promettente. Se gli esempi di applicazione alle osservazioni del cosmo sono finora pochi, è pur vero che annoverano casi notevoli quali la scoperta della radiazione cosmica di fondo e la rilevazione di un’anomalia della sonda Voyager 2 mentre attraversava gli anelli di Saturno.
E non solo. Dei quasi cento progetti identificati in questo lavoro, riguardanti corpi celesti dai pianeti del Sistema solare agli ammassi stellari, dal centro della Via Lattea ai buchi neri, oltre un terzo sono dedicati alla divulgazione, con l’intento di creare un coinvolgimento più immersivo con il pubblico nella disseminazione dei risultati della ricerca astronomica. Rappresentare i dati in forma udibile ha inoltre il vantaggio di una maggior accessibilità da parte di ipovedenti e non vedenti, sia per progetti divulgativi che di ricerca. Siamo abituati a pensare all’astronomia come una disciplina genuinamente visuale eppure, come ha ricordato l’astronomo non vedente Enrique Perez-Montero, nessun astronomo può “vedere” l’universo che studia: per la ricerca d’avanguardia si utilizzano infatti telescopi in diverse bande dello spettro elettromagnetico, ccd, spettrografi, magnetometri, e molti altri strumenti che rilevano una moltitudine di dati disparati. Dati che vengono tradizionalmente rappresentati sotto forma di immagini, grafici e diagrammi, ma che possono ugualmente essere trasposti in forma sonora.
Dopo aver passato in rassegna le sonificazioni astronomiche realizzate ad oggi, gli autori analizzano i limiti degli approcci adottati finora e le sfide ancora aperte, tracciando alcuni suggerimenti per il futuro di questo interessante ambito di studio. Per saperne di più, abbiamo intervistato Anita Zanella, prima autrice dell’articolo.
Dottoressa Zanella, come è nato questo studio?
«L’idea di questo articolo è nata durante il workshop Audible Universe che si è tenuto tra fine agosto e inizio settembre dell’anno scorso. Si sarebbe dovuto tenere di persona, presso il Lorentz Center a Leida, nei Paesi Bassi, ma c’era ancora incertezza legata alla pandemia quindi è stato fatto online. Gli organizzatori, oltre me, erano gli astronomi Chris Harrison e Nic Bonne – quest’ultimo è ipovedente, Kate Meredith, educatrice che lavora con non vedenti e ipovedenti, e Nicolas Misdariis, sound designer. Durante il workshop erano stati invitati astronomi che si occupano di sonificazione, educatori ed esperti di sonificazione, quindi sia sound designer che musicisti, proprio per mettere in contatto queste comunità che fino a quel momento erano completamente disgiunte. Dalle discussioni e interazioni del workshop è nata l’idea di cominciare a pubblicare articoli, tra cui questa review sullo stato della sonificazione in astronomia. A breve ne uscirà un altro, invece, con la prospettiva dei sound designer sul tema, e poi ci troveremo di nuovo, questa volta di persona a Leida, per una seconda edizione del workshop a dicembre».
In questa review, fate il punto della situazione sull’uso della sonificazione in astronomia. Quali sono i risultati più importanti?
«Uno dei rischi grossi in questo momento è quello di continuare a reinventare gli stessi software e rifare con minimi cambiamenti le stesse cose che già sono state fatte. C’è parecchio lavoro che viene fatto principalmente da astronomi sulla sonificazione di dati astronomici ma non c’è una vera comunicazione dei risultati né una vera valutazione dei software prodotti. Quindi abbiamo cercato di raccogliere l’esistente, quello che è già stato prodotto. Abbiamo fatto un sondaggio tra i nostri contatti, compresa la Sonification Work Chat, un gruppo di persone – non solo astronomi – che si occupano di sonificazione a livello mondiale, nato durante la pandemia. Così siamo anche venuti a conoscenza del Data Sonification Archive, una banca dati creata da Sara Lenzi, musicista e sound designer che ha partecipato al nostro workshop e ha raccolto tutte le sonificazioni di dati che è riuscita a trovare finora. All’interno di questo database ci sono una serie di parole chiave, per cui si possono cercare progetti che riguardano una determinata disciplina oppure determinati metodi di sonificazione, e così via. Abbiamo integrato i risultati della nostra survey in questo database che viene continuamente aggiornato e quindi dovrebbe diventare un archivio di riferimento».
Nell’articolo, parlate dell’uso preferenziale delle visualizzazioni in astronomia, sia per l’analisi dei dati che per la loro presentazione alla comunità scientifica e al pubblico. Perché la sonificazione non è altrettanto popolare?
«Uno dei problemi che abbiamo riscontrato è che c’è molto lavoro nella creazione di software che trasformano i dati in suono ma poca valutazione dei risultati, quindi non c’è un vero e proprio test dell’efficacia della sonificazione: non abbiamo un risultato quantitativo che dimostri che la sonificazione è efficace e questo ovviamente genera dello scetticismo. L’altro elemento è probabilmente anche l’abitudine, in ambito accademico, a utilizzare la visualizzazione, fino ad ora considerata la tecnica più comune. Si conosce poco della sonificazione perché non c’è documentazione, ci sono pochi articoli peer-reviewed. Con queste pubblicazioni cerchiamo anche di rendere tutto il lavoro fatto visibile e credibile tramite la peer-review».
Come funziona la valutazione in questo ambito? Può darci un esempio?
«In uno studio, sottomesso alla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society e attualmente in fase di revisione, abbiamo valutato uno di questi software che si chiama Astronify, confrontando la reazione di astronomi e non astronomi alle visualizzazioni e alle sonificazioni di dati astronomici. Abbiamo visto che gli esperti danno risposte corrette in percentuale maggiore rispetto ai non esperti per quanto riguarda le visualizzazioni, ma per le sonificazioni il rate di successo è molto simile tra i due gruppi. Questo ci mostra che il training è fondamentale: gli astronomi sono abituati alla visualizzazione, quindi uno dei problemi della sonificazione è il training, che per ora non abbiamo. Se riuscissimo a inserirlo a livello curriculare, nelle scuole ma anche nell’università, saremmo probabilmente più abituati ad ascoltare con un ascolto attento».
Bisogna dunque intervenire sulla formazione. Quali altri fattori potrebbero incentivare l’uso di questo strumento alternativo nella comunità astronomica?
«Direi che le sfide sono tre: il training verso un ascolto che permetta di ricercare alcune caratteristiche del suono e dei dati, una valutazione sistematica e scientifica dei risultati della sonificazione, il che permetterebbe probabilmente di cominciare a utilizzarla in alcuni studi scientifici oltre che per divulgazione, e infine la disseminazione».
Detto questo, però, nell’articolo fate anche notare come l’uso della sonificazione sia attualmente in crescita nel campo dell’astronomia. Qual è secondo lei il motivo di questa impennata negli ultimi dieci anni?
«In effetti c’è una crescita direi esponenziale del numero di software disponibili e di sonificazioni create. Forse il motivo è in parte perché i primi risultati cominciano a essere noti, se ne parla di più, forse anche perché le capacità tecniche e tecnologiche cominciano a essere più pronte, a dare un aiuto in questo senso. Forse comincia a svilupparsi un po’ una sensibilità in questa direzione. Non ho una risposta definitiva».
Lei usa la sonificazione per la sua ricerca?
«Non ancora. Mi piacerebbe cominciare a farlo e penso che uno degli elementi chiave sia cominciare a utilizzarla proprio nella ricerca, per mostrare che effettivamente funziona. Spero di poterlo fare a breve».
Nell’articolo avete addirittura incluso due figure accompagnate dal suono: la prima, che riporta un esempio di dati sonificati – il segnale di un’onda gravitazionale – e la seconda, che illustra la crescita dell’uso di sonificazioni in astronomia, a cui accennavamo prima. Come mai?
«Questo è un aspetto su cui abbiamo un po’ premuto e che in qualche modo è stato chiave per questo lavoro: l’utilizzo della sonificazione negli articoli che vengono pubblicati. Attualmente i file pdf degli articoli pubblicati dalle riviste scientifiche non permettono l’inclusione di file sonori, ci deve essere un link ad un repository esterno. Per la prima volta, con questo articolo Nature Astronomy ha messo in piedi un sistema che permette l’inserimento del suono nella parte grafica della figura, all’interno dell’articolo. Credo che questo sia un buon passo avanti, una buona spinta verso la credibilità e anche l’importanza della sonificazione».
Avete ricevuto commenti alla versione preliminare dell’articolo, dopo averla condivisa qualche settimana fa sul portale open access Arxiv?
«Sì, da persone incuriosite ed entusiaste, e da alcuni non vedenti che erano grati di avere accesso alle immagini anche in questo modo alternativo. Ci tengo a sottolineare che, se la sonificazione è certamente utile a chi non vede e quindi permette di rendere l’astronomia – non solo la divulgazione ma anche la ricerca – accessibile ai non vedenti, potrebbe essere utile anche ai vedenti per trovare nuovi modi di esplorare i dati, in particolare dati multidimensionali come quelli con cui stiamo lavorando sempre più in questi giorni. Quindi è utile potenzialmente a tutti».
Quali sono, secondo lei, gli ingredienti di una sonificazione efficace?
«Ci stiamo lavorando. Ho iniziato una collaborazione con il Dipartimento di psicologia dell’Università di Padova, dove il professor Massimo Grassi lavora sulla sonificazione dal punto di vista della psicoacustica, e così a ottobre inizierà il primo dottorato (almeno credo) sulla sonificazione applicata all’astronomia. Stiamo testando diverse modalità di trasformazione dei dati in suono, utilizzando per esempio il pitch (l’altezza di un suono, ndr) cioè i toni acuti o gravi, oppure la durata del suono, in modo da capire quali siano i parametri più efficaci. È un lavoro in corso».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Astronomy l’articolo “Sonification and sound design for astronomy research, education and public engagement” di A. Zanella, C.M. Harrison, S. Lenzi, J. Cooke, P. Damsma, S.W. Fleming