Nonostante la sua apparente tranquillità, lo spazio extraterrestre è caratterizzato da condizioni tutt’altro che facili: temperature estreme, alti livelli di radiazione di fondo, particelle cariche, micrometeoroidi e la radiazione non filtrata del Sole. A queste sollecitazioni sono esposti i materiali e le apparecchiature all’esterno della Stazione spaziale internazionale orbitante attorno alla Terra all’estremità della nostra atmosfera. Prima di poter affrontare una missione spaziale è necessario sapere come funzionerà in quelle specifiche condizioni la tecnologia operativa a bordo del veicolo spaziale, se davvero si comporterà nel modo previsto e quale sarà la resistenza di materiali, attrezzature e organismi a questo ambiente ostile. Proprio con questo proposito è stata installata all’esterno della Iss la suite di piattaforme Misse (Materials International Space Station Experiment), dedicate allo studio degli effetti all’esposizione spaziale.
«Ci sono molti modi per testare a terra i vari aspetti dell’esposizione all’ambiente spaziale uno per uno, ma solo in orbita è possibile studiare l’effetto combinato di tutti allo stesso tempo», afferma Mark Shumbera di Aegis Aerospace, alla guida della Misse Flight Facility, lanciata a bordo dello SpaceX-14 Dragon nel 2018 e sponsorizzata dall’Iss National Lab, insieme a Misse-9, un set di sei esperimenti Nasa per capire come alcuni polimeri, compositi e altre tipologie di rivestimenti gestiscono l’esposizione allo spazio e gli effetti del degrado ambientale.
La struttura Expose-R-2 dell’Agenzia spaziale europea (Esa) è un’altra piattaforma attraccata alla Iss che offre agli scienziati l’opportunità di testare campioni nello spazio. Gli esperimenti di Expose stanno esplorando i limiti della vita terrestre, come e se gli organismi possano sopravvivere nello spazio e in che modo la radiazione solare non schermata influenzi le varie sostanze chimiche presenti. Inscatolati all’esterno della Iss, sono stati tenuti sotto osservazione per diciotto mesi esemplari di 46 specie di batteri, funghi e artropodi. In questo ambiente la temperatura può raggiungere fino a -12 °C mentre la Stazione attraversa la zona d’ombra terrestre, o 40 °C in altri momenti, sottoponendo i campioni biologici a un processo simile alla liofilizzazione usata per conservare gli alimenti.
Tra i vari esperimenti ci sono Boss (Biofilm Organisms Surfing Space) e Biomex (Biology and Mars Experiment), che hanno esposto biofilm, biomolecole ed estremofili – organismi che possono vivere in condizioni intollerabili per la maggior parte delle forme di vita che conosciamo – allo spazio e a condizioni simili a quelle presenti su Marte. I microrganismi che tollerano condizioni estreme hanno molti usi potenziali nei sistemi di supporto vitale per le future missioni che viaggeranno lontano dalla Terra e non potranno fare affidamento su altre missioni di rifornimento. Pertanto, aumentare la loro autonomia generale è fondamentale. Per esempio, i cianobatteri possono utilizzare le risorse disponibili per fissare il carbonio (convertendo l’anidride carbonica atmosferica in carboidrati) e produrre ossigeno. Tuttavia, nonostante il crescente interesse nell’utilizzo di tecnologie basate sui microbi per supportare l’esplorazione dello spazio umano, rimangono molte incognite non solo sui bioprocessi ma anche sulla sopravvivenza microbica e sulla stabilità genetica in condizioni extraterrestri.
Alcune risposte arrivano ora grazie a uno studio, condotto da un team guidato dall’Università di Roma Tor Vergata, basato sui risultati degli esperimenti su Expose-R-2 pubblicato recentemente su Scientific reports, una rivista del gruppo Nature. In particolare, è stata studiata la robustezza della capacità di riparazione delle lesioni del Dna del cianobatterio del deserto Chroococchidiopsis sp. CCMEE 029 accumulate in condizioni simili a quelle di Marte (radiazioni Uv e atmosfera). Le alterazioni genomiche determinate in un derivato spaziale del cianobatterio sono state analizzate dopo la riattivazione sulla Terra delle sue cellule.
«Lo scopo di questo studio», spiega Daniela Billi del Dipartimento di biologia dell’Università di Roma Tor Vergata, membro del gruppo di ricerca per Boss e Biomex, «era verificare se questo cianobatterio potesse riparare i danni al Dna accumulati durante il viaggio su Marte e in generale durante l’esposizione a condizioni completamente marziane». Durante l’esposizione all’ambiente spaziale, le cellule essiccate del Chroococcidiopsis hanno ricevuto una dose di radiazioni ionizzanti equivalente a un viaggio su Marte. Le cellule essiccate sono state anche mescolate con un simulante di regolite o polvere marziana e hanno ricevuto una dose di raggi Uv corrispondente a circa quattro ore di esposizione sulla superficie di Marte. La loro risposta ha suggerito che i batteri potrebbero essere trasportati sul Pianeta rosso e reidratati all’occorrenza senza particolari danni. È infatti emerso che il sequenziamento del Dna delle cellule reidratate dopo l’esposizione spaziale non mostra alcun aumento significativo del tasso di mutazione rispetto ai campioni di controllo cresciuti in condizioni terrestri. Questo risultato aumenta il potenziale per l’utilizzo di questo organismo per impiegare le risorse disponibili in loco a sostegno degli insediamenti umani.
Un altro esperimento presente sulla struttura europea Expose-R-2 ha riscontrato segni di vita nei funghi contenenti melanina dopo sedici mesi di esposizione allo spazio. Il pigmento di melanina fungina sembra svolgere un ruolo nella resistenza cellulare a condizioni estreme, comprese le radiazioni, e potrebbe avere un potenziale per l’uso come protezione dalle radiazioni in future missioni nello spazio profondo. Nell’esperimento, uno strato sottile di un ceppo di fungo melanizzato ha ridotto i livelli di radiazione di quasi il due per cento e potenzialmente fino al cinque per cento.
Oltre ai funghi, i ricercatori hanno utilizzato la piattaforma per esporre nello spazio circa quaranta specie di animali e piante multicellulari in fase di riposo. I risultati hanno mostrato che molti di questi organismi sono rimasti vitali e hanno persino completato i cicli di vita e la riproduzione per svariate generazioni, suggerendo che futuri viaggi nel Sistema solare potrebbero portare con sé forme di vita terrestre da utilizzare nei sistemi ecologici di supporto vitale e per creare ecosistemi artificiali su altri pianeti.
Per saperne di più:
- Leggi su Scientific Reports l’articolo “Absence of increased genomic variants in the cyanobacterium Chroococcidiopsis exposed to Mars-like conditions outside the space station” di Alessandro Napoli, Diego Micheletti, Massimo Pindo, Simone Larger, Alessandro Cestaro, Jean-Pierre de Vera e Daniela Billi