L’abbiamo incontrata circa due anni fa tra le cinquanta scienziate scelte da Wired per aver cambiato il mondo dell’informatica, e la troviamo oggi impegnata in un progetto che vuole usare proprio quelle competenze di informatica per un fine tanto nobile quanto urgente: studiare il clima della Terra. Lei è Viviana Acquaviva, astrofisica esperta di intelligenza artificiale e machine learning, vincitrice della prima edizione di una fellowship che ha lo scopo di supportare gli scienziati in una transizione di carriera. Dall’astrofisica alla scienza del clima, nel caso di Acquaviva. Media Inaf l’ha incontrata di nuovo, quindi, per parlare con lei di questa sua nuova missione, e di quanto abbia già imparato su questo nuovo modo di fare ricerca anche solo preparando la domanda per la Simons Pivot Fellowship.
«È un’iniziativa secondo me molto bella», racconta Acquaviva, «perché il mondo accademico spesso si fonda sull’idea di formare degli specialisti su un argomento, che ci dedicheranno tutta la loro carriera diventando, possibilmente, i massimi esperti mondiali. Io invece amo cambiare e per anni l’ho fatto all’interno dell’astronomia, lavorando su tante cose diverse. Quindi, diciamo, è qualcosa a cui ero già ricettiva. Ma ci sono state due cose – successe entrambe su Twitter, che ormai è un grande veicolo di comunicazione scientifica – che mi hanno portata qui. La prima in febbraio, mi sembra, quando ho letto dell’apertura di un nuovo centro di ricerca che si chiama Leap (sta per Learning the Earth with Artificial Intelligence and Physics): un istituto di scienza e tecnologia fondato dalla Nsf della Columbia University proprio nell’area di New York. Lì per lì ho subito pensato, “ma che bello, sembra così interessante”. Anche perché, scrivendo il mio libro sull’intelligenza artificiale applicata alla fisica e all’astrofisica – che sarà pubblicato a breve – avevo studiato questi temi legati al clima, ma senza averci mai lavorato. In particolare, mentre ero alla ricerca di un’applicazione didattica da riportare nel libro, avevo letto molti articoli su come sfruttare i dati dei satelliti terrestri per imparare cose sul nostro pianeta. Mi era piaciuto molto l’argomento ma non avevo avuto l’opportunità di approfondire, ed era rimasto un po’ lì. Poi, un paio di settimane dopo, ho visto il bando della fellowship, e mi è subito sembrato che proponesse un’idea molto ben strutturata».
Vuole dirci esattamente di che si tratta?
«Funziona così: per un anno loro si sostituiscono alla tua università nel pagare il tuo stipendio, al cento per cento, in modo che tu possa studiare e imparare qualcosa nel nuovo campo che hai scelto. Non devi fare tutto da solo, ma hai la supervisione di uno più mentors (anche loro pagati sui fondi della fellowship nel corso di questo stesso anno). Queste figure vanno scelte prima di mandare la domanda. Al termine del primo anno di formazione, poi, si ha la possibilità di applicare per fondi di ricerca nel nuovo campo. Naturalmente, nessuno si aspetta che dopo un anno tu sia competitivo con i ricercatori che fanno domanda ai fondi tradizionali, e meno male: penso che in un anno si riesca a mala pena a capire esattamente su cosa si vuole lavorare. Quindi, si tratta di fondi “dedicati”. Come dicevo, questo approccio mi ha convinto da subito perché, scegliendo il mio argomento, mi sembrava che tutti i pezzi avessero un loro posto: avevo trovato questo campo di ricerca che mi piaceva e che mi sembrava promettente anche rispetto ai miei studenti più giovani undergraduate (che in Italia corrispondono agli studenti della laurea triennale, ndr)».
In che senso?
«Una cosa di cui ho sofferto (e di cui soffro) in questi anni di insegnamento è la barriera che alle volte si crea fra me e i miei studenti, e fra loro e la loro carriera futura, parlando di astrofisica. La mia attività di ricerca in intelligenza artificiale applicata all’astrofisica potrebbe essere una cosa poco rilevante per la loro vita, e poco accessibile a studenti ancora in via di formazione, a meno che essi non decidano di intraprendere una carriera accademica. Ma io insegno in un corso di laurea in fisica, all’università pubblica, e pochi dei miei studenti intraprenderanno questa scelta. Molti, invece, vorranno trovare un impiego dopo l’università. Alle volte, quindi, trovo un po’ limitante non poter condividere con i miei studenti degli aspetti di ricerca più pratici».
Quindi lo fa anche per loro?
«Sì, insegnare e includere studenti nella mia attività di ricerca è un po’ una mia missione e mi viene spontaneo, quando compio una scelta per la mia carriera, non farlo solo in relazione a me stessa ma considerare anche loro nel bilancio. Un po’ come quando si ha una famiglia e si deve prendere una decisione. Non si sceglie mai solo il meglio per sé stessi, ma si mantiene sempre un occhio sugli altri membri della famiglia, di cui ci sentiamo responsabili».
Qual è, esattamente, il ruolo dei mentors?
«Potremmo dire che il loro è un impegno part time, nel senso che devono essere disposti ad accoglierti nel loro gruppo di ricerca, a dedicarti del tempo e delle risorse, ma non come si fa con uno studente, perché alla fine questa fellowship è pensata per scienziati già formati e che sanno che cosa significa approcciarsi alla ricerca – anche se l’hanno sempre fatto in un altro ambito. Immagino, quindi, che con loro avrò degli incontri settimanali. In fase di domanda, a loro è stato chiesto di fare un “mentoring plan” per spiegare in che modo pensano di agevolare la mia transizione di carriera».
Come si inserisce questa fellowship nel suo lavoro attuale (di ricerca e di insegnamento)? C’è spazio per tutto?
«Diciamo che la fellowship sfrutta un po’ l’idea della libertà accademica che ho, fortunatamente, lavorando in un dipartimento di fisica. Intendo dire che ti dà la possibilità di mantenere il tuo lavoro spostando però il focus della tua ricerca. Nella domanda ho dovuto raccontare quali risultati e successi ho ottenuto in passato nel mio ambito, e anche che cosa penso che potrei portare nel nuovo campo. A me piacerebbe sfruttare le nuove collaborazioni che questa opportunità mi offre per dare nuove possibilità ai miei studenti di fare esperienze di ricerca in un altro settore. Poi, chissà, magari prima o poi potremo aggiungere anche un indirizzo di fisica del clima nel nostro dipartimento. Credo sia un indirizzo che, sempre di più, offrirebbe delle opportunità e potrebbe aiutare gli studenti a trovare lavoro. In fin dei conti, saranno loro a ereditare il pasticcio climatico che abbiamo creato e spetterà a loro il poco invidiabile compito di risolverlo».
Crede che chiuderà con l’astrofisica, quindi?
«Per quanto riguarda la parte di insegnamento, dipende anche dalle necessità del dipartimento. È possibile che io continui a tenere dei corsi di astrofisica, oppure che vengano dati a qualcun’altro nel momento in cui focalizzerò la mia attività di ricerca altrove. Questa è la parte che, come dire, mi intimorisce un po’. Sono a un punto della mia carriera in cui ho un buon grado di confidenza e di competenza rispetto alla ricerca che svolgo, in cui conosco la comunità scientifica e loro conoscono me. E da un lato mi dispiace pensare di abbandonare i miei collaboratori. Mi piacerebbe anche, in qualche modo, saper fare da ponte fra queste due comunità di scienziati».
Qual è il piano ora? Deve terminare tutto quel che ha in sospeso prima di cominciare questa nuova avventura?
«Sì, esattamente. In verità non so se devo, ma è quello che voglio fare, e per questo ho messo come data d’inizio l’autunno del 2023. Avevo già preso tanti impegni per il prossimo anno: ho dei corsi in cui insegno, ho una studentessa di dottorato, sono co-chair alla scuola Vaticana sull’intelligenza artificiale che si terrà per quattro settimane a giugno dell’anno prossimo. Vorrei finire tutto perché, quando comincerà questa nuova avventura, vorrei potermi immergere completamente. Una specie di terapia d’urto».
Come si sente all’idea di tornare studente?
«Non vedo l’ora. Spero davvero di poter essere studente al cento per cento, anche perché secondo me mentalmente è necessario sfruttare tutto il tempo che mi daranno per imparare. Credo che per qualunque persona che ha avuto una carriera accademica l’idea di passare un anno imparando cose nuove, e fra l’altro non da soli, sia eccitante. Nel centro di ricerca in cui ci sono i miei due mentors ci sono tanti gruppi di ricerca che affrontano la scienza del clima sotto vari aspetti. La mia idea è quella di sfruttare quest’anno per assaggiare un po’ tutto, leggere articoli, fare domande, e non precludersi alcuna strada a priori».
L’ultima volta che ci siamo sentite lei mi ha detto che l’astrofisica era un argomento come un altro, perché quello che le piace veramente è il metodo con cui affronta i problemi e cerca di scioglierli. Non c’è altro, quindi, dietro la scelta di studiare il clima?
«Il clima è un argomento che mi è molto caro, ma direi che è stato un processo. Quando ho cominciato a leggere un po’ a riguardo per scrivere il libro, pensavo semplicemente che fosse un argomento interessante ma lo guardavo più che altro da un punto di vista tecnico. Mi focalizzavo sul fatto che molti metodi che usiamo per studiare l’astrofisica con il machine learning si prestano bene anche ai problemi che riguardano la scienza del clima. Poi, però, quello che mi ha spinto a fare domanda proprio in questo ambito è qualcosa di diverso: sia ben chiaro, non pretendo di risolvere i problemi relativi al clima che stiamo vivendo oggi, ma mi piacerebbe che la mia ricerca avesse delle ricadute più pratiche. Mi piacerebbe poter lavorare su qualcosa di utile e, ancora di più, mi piacerebbe poter dare ai miei studenti delle competenze e dei metodi perché loro possano lavorare a qualcosa di così rilevante per le loro vite e per il futuro di tutti».
Quanto di più diverso, forse, da quel che spinge a studiare astronomia…
«È vero. Chi studia astronomia a volte sembra quasi che si vanti di vivere in questa realtà ovattata in cui la propria passione è così lontana dalla vita di tutti i giorni. Ma io penso che parlare di foreste, di laghi, di oceani, di atmosfera e di problemi che fanno parte della vita di tutti i giorni sia un modo responsabile di fare ricerca».
Ed è un caso, per lei, che questo desiderio arrivi proprio in questo momento storico? Dopo l’estate che abbiamo vissuto, in cui il clima e le emergenze sono state la nostra cronaca, dopo quasi tre anni di pandemia e durante una guerra.
«Penso di no. Se mi metto a pensare a tutte le implicazioni di questo cambiamento mi sento un po’ paralizzata, alle volte. Mi rendo conto che devo imparare a ripetermi che ce la farò, che devo cercare di imparare un po’ per volta e con responsabilità, che devo trovare la mia nuova etica del lavoro e circondarmi di persone che siano dei buoni modelli per me. Insomma, spero di riuscire a trovare il mio nuovo equilibrio».
A proposito di modelli, è stato difficile scegliere i mentors?
«No, anche questo è stato in qualche modo fortunoso. Una delle cose che sono grata di aver imparato in un anno di terapia è che siamo cresciuti con l’idea che esista la scelta migliore. Invece, per me è stata una rivelazione e uno shock capire che non è così, che questa scelta migliore in realtà è una favoletta che ci raccontiamo, e che a volte ci limita. Soprattutto perché non sempre abbiamo a disposizione tutte le variabili per decidere, e non abbiamo il controllo sull’esterno. Quindi, tornando ai mentors, la cosa più difficile per me è stata vincere l’imbarazzo. Le due persone che ho scelto sono i due codirettori di questo centro che nominavo prima, il Leap. Prima ho scritto una mail alla codirettrice, perché mi piaceva l’idea di avere una donna al mio fianco. Le ho scritto spiegandole la mia situazione e cercando di non sembrare una pazza, e per fortuna lei è stata subito disponibile per un incontro. Sono andata a visitare il centro e così ho conosciuto anche l’altro direttore. Sono due persone molto diverse, lavorano su cose diverse e questo mi piace molto, perché avranno due stili unici nel seguirmi. Sono molto contenta della mia scelta».
Si è già fatta un’idea su quali conoscenze vorrebbe raggiungere alla fine di quest’anno, e quali temi vorrebbe approfondire?
«No, ancora no, vorrei fare questa scelta il più tardi possibile. È proprio quello in cui sto cercando di frenarmi perché penso che l’opportunità di studiare con una mente aperta, di vedere tutto quello che c’è e tutto quello che si può fare sia unica. Ho paura di fare un errore: appena trovo qualcosa di interessante, buttarmici a capofitto. Sicuramente però vorrei che una parte della mia ricerca fosse dedicata ad analizzare l’infinità di dati storici che abbiamo negli archivi e anche quelli che continuano ad arrivare dai satelliti. Cose che credo siano anche molto accessibili per i miei giovani studenti. Questo per capire, magari, come funzionano piccole parti del nostro pianeta e che impatto possono avere alcuni eventi sulle comunità locali».
È l’unica ad aver proposto un argomento che riguarda il clima?
«No, una cosa che mi ha colpito è che, pur essendo una fellowship aperta a qualunque disciplina in ambito Stem, fra i sette vincitori ci sono ben tre fisici che passano alle scienze della terra, del clima o dell’oceano. Questo mi dice che, come scienziati, sentiamo in qualche modo il senso di responsabilità. Una cosa che mi ha aperto la mente e che mi ha fatto molto riflettere su questo l’ho sentita in un podcast che si chiama “How to save a planet”, creato da Yana Elizabeth Johnson. Ho cominciato ad ascoltare podcast solo recentemente, proprio per preparare questa domanda e imparare qualcosa sul clima. Ho scoperto che c’erano davvero tante cose che non sapevo, sebbene io sia una privilegiata dal momento che ho studiato e lavoro nell’ambito della ricerca scientifica. Mi chiedo come facciano le persone che non hanno le mie stesse opportunità, come possiamo far arrivare queste informazioni a tutti».
Che cosa l’ha ispirata, quindi, in questo podcast?
«L’autrice del podcast ha una proposta molto interessante per trovare il proprio ruolo in questo problema gigantesco del clima. Lei fa una sorta di diagramma di Venn (un diagramma che si rappresenta con l’intersezione di più insiemi e che mostra le relazioni che esistono fra argomenti e temi differenti, ndr). In questo diagramma lei mette insieme tre temi. Da un lato l’insieme delle cose sulle quali abbiamo delle competenze, le cose in cui siamo bravi. Poi le cose di cui c’è necessità – e che in questo caso riguardano il nostro pianeta – e da ultime le cose che ci danno gioia. Ecco, ognuno di noi dovrebbe trovare il proprio ruolo nell’intersezione di questi tre insiemi. Non sarà la stessa cosa per tutti, anzi, sarebbe proprio interessante vedere quanta varietà potrebbe uscire se tutti facessero questo esercizio. E vorrei che questa fosse anche la mia guida, nei prossimi mesi e durante questa fellowship. Vorrei riuscire a trovare l’intersezione giusta per me, nel mio diagramma di Venn».