Ritorna sulla rampa di lancio oggi, venerdì 4 novembre, il razzo Sls (Space Launch System) che porterà la capsula Orion della missione Artemis I fino alla Luna. Dopo i primi tentativi di lancio, la Nasa e le agenzie partner ci riprovano a partire da lunedì 14 novembre.
Intorno ai primi tentativi, tra la fine di agosto e l’inizio di settembre scorsi, Media Inaf ha ricevuto diverse domande a proposito delle famigerate fasce di Van Allen, regioni dell’ambiente magnetico terrestre in cui si accumulano particelle ad alta energia, e della loro eventuale pericolosità per il volo spaziale umano. Artemis I è un test di volo senza equipaggio, ma funge da apripista al programma Artemis, che comprende missioni per riportare gli astronauti sulla Luna nei prossimi anni: è dunque importante parlare delle radiazioni nello spazio e dei loro effetti sulla fisiologia umana.
Per saperne di più sui potenziali rischi per la salute umana posti dalle fasce di Van Allen e altri ambienti simili nello spazio, abbiamo raggiunto Piers Jiggens, ingegnere nella sezione Space Environment and Effects dell’Agenzia spaziale europea (Esa) e membro del gruppo di lavoro Esa dedicato all’eliofisica presso lo European Space Research and Technology Centre (Estec) nei Paesi Bassi. Originario del Regno Unito, si è laureato in aeronautica con una specializzazione in astronautica e ha conseguito un dottorato di ricerca in astronautica, specializzandosi nello studio delle particelle energetiche solari e degli strumenti per far fronte alla minaccia rappresentata dalle eruzioni solari nella progettazione di veicoli spaziali.
Dottor Jiggens, cosa sono le fasce di Van Allen?
«Le fasce di radiazione di Van Allen sono formate da “radiazione di particelle” intrappolate, soprattutto protoni ed elettroni. Il campo magnetico terrestre, generato dal nucleo di ferro della Terra, è responsabile di questo intrappolamento, costringendo le particelle a ruotare attorno alle linee di campo magnetico, e facendole rimbalzare a bassa quota, dove il campo magnetico diventa più forte».
Da dove vengono queste particelle?
«Di solito si pensa a due fasce, anche se anche lo spazio tra le fasce si riempie in alcuni momenti. La fascia interna è formata in gran parte da protoni, la cui origine si attribuisce ai raggi cosmici galattici provenienti da esplosioni di supernova: questi raggi cosmici permeano il mezzo interstellare e una frazione significativa può penetrare nel Sistema solare e nella magnetosfera terrestre. Quando colpiscono l’atmosfera terrestre, rilasciano quelli che chiamiamo “neutroni albedo”, che decadono in protoni, i quali vengono poi intrappolati. La fascia esterna, invece, è in gran parte costituita da elettroni e la loro origine si spiega in termini di particelle del vento solare [il flusso di particelle rilasciate continuamente dal Sole nello spazio interplanetario, ndr] che entrano nella magnetosfera da valle, ovvero dietro la Terra, attraverso la coda magnetica. Quando queste particelle vengono accelerate localmente, all’interno della magnetosfera, a seguito di tempeste geomagnetiche, sono responsabili delle aurore, che sono uno degli aspetti più visibili della meteorologia spaziale».
Di che densità stiamo parlando?
«La densità delle particelle a queste energie, quello che chiamiamo radiazione di particelle, è molto più bassa della densità del plasma nella plasmasfera [la parte più interna della magnetosfera terrestre, ndr] che a sua volta è molto più bassa della densità del gas neutro nell’atmosfera terrestre. Dipende molto dalla posizione, ma diciamo che, nelle fasce di radiazione, parliamo dell’ordine di cento particelle per metro cubo».
Ci sono rischi per gli esseri umani che passano attraverso le fasce di radiazione di Van Allen?
«Esistono principalmente due tipi di rischi da radiazione per l’uomo. In primo luogo, quelli che chiamiamo effetti deterministici, che possono essere un’esposizione alle radiazioni di basso livello a lungo termine o di alto livello a breve termine: possono provocare l’interruzione del sistema nervoso centrale, la soppressione dell’emopoiesi nel midollo osseo, la cataratta e altri disturbi della vista, e la malattia acuta da radiazione, che potrebbe rappresentare un rischio significativo per le attività extraveicolari [le cosiddette “passeggiate spaziali”, ndr]. In secondo luogo, ci sono effetti randomici, considerati in termini di una maggiore possibilità di sviluppare il cancro. Soprattutto nel caso degli effetti randomici, le particelle più pesanti presentano un rischio maggiore di impatto sulla biologia umana, perché hanno una maggiore ionizzazione a breve distanza. Le fasce di Van Allen non rappresentano necessariamente il rischio maggiore per l’uomo, ma in effetti, soprattutto nella fascia interna, qualche rischio c’è».
Quindi non sarebbero un grande problema. Perché?
«Poiché sappiamo dove si trovano, sappiamo quando le attraverseremo, possiamo farlo rapidamente e sappiamo che possiamo proteggerci da loro attraverso materiale di schermatura e mantenendo gli astronauti all’interno delle navicelle spaziali. Sarebbe molto mal pianificata una missione con effetti gravi in termini di salute umana causati dalle fasce di Van Allen».
Cosa comporta invece un rischio maggiore?
«I raggi cosmici galattici rappresentano un rischio maggiore perché sappiamo di non poterci proteggere da loro. Anche le tempeste di radiazioni solari rappresentano un rischio più impegnativo perché non sono facilmente prevedibili e colpiscono tutto lo spazio intorno alla Terra e con gravità crescente quanto più ci si allontana dallo scudo protettivo della magnetosfera terrestre».
Quanti astronauti hanno già attraversato le fasce di Van Allen ad oggi?
«Tecnicamente qualsiasi astronauta sulla Stazione spaziale internazionale (Iss, International Space Station) attraversa alcune parti delle fasce a bassa quota, ma tutti gli astronauti delle missioni Apollo hanno volato attraverso le fasce di radiazione durante il viaggio verso la Luna. Le missioni Apollo hanno seguito traiettorie balistiche, quindi sono passate attraverso le fasce molto rapidamente, il che ha ridotto il rischio per questa popolazione di astronauti a un livello molto basso. Le missioni Apollo hanno impiegato solo circa quattro giorni e mezzo per raggiungere la Luna. La Luna è a poco meno di 400mila km di distanza e le fasce di radiazione si estendono solo per circa 60mila km, quindi non si passa una frazione enorme di tempo nelle fasce. Andando a fare i conti, ci sono state nove missioni Apollo che hanno attraversato l’intera fascia (l’Apollo 8 e poi dalla 10 alla 17, mentre Apollo 9 era solo in orbita terrestre bassa) e due astronauti che hanno effettuato il viaggio due volte (Jim Lovell sull’Apollo 8 e 13 ed Eugene Cernan sull’Apollo 10 e 17). Quindi in tutto parliamo di 25 persone: un club esclusivo, che sarà ampliato solo adesso, cinquanta anni dopo».
Questi astronauti hanno riportato sintomi riconducibili alle radiazioni?
«È difficile da dire perché ci sono molti dati personali che sono protetti. Alcuni astronauti hanno riferito di aver “visto” radiazioni – una specie di “neve” o lampi di luce – che potevano vedere anche a occhi chiusi. Questo effetto è ben documentato. Gli effetti a lungo termine sono più difficili da quantificare perché, se qualcuno si ammala di cancro, non c’è un modo preciso per stabilire se questo deriva dalle radiazioni ricevute nello spazio o da qualche altro comportamento. Quindi l’approccio è in termini di mitigazione del rischio aggiuntivo da radiazioni».
Per quanto tempo gli esseri umani possono rimanere in un simile ambiente di radiazione particellare prima che diventi pericoloso?
«Gli astronauti sopravvivono in orbita terrestre bassa per missioni di lunga durata, da diversi mesi ad anni, soprattutto se si conta il tempo accumulato nelle diverse missioni per ciascun astronauta, ma c’è da dire che la Iss fornisce una buona dose di schermatura. Passano regolarmente attraverso le fasce di Van Allen, in particolare la fascia interna, e attraverso una regione chiamata Anomalia del Sud Atlantico, causata da un offset tra il campo magnetico terrestre rispetto al centro di massa. Il campo magnetico in questa zona è leggermente più debole e i protoni possono arrivare più in basso, raggiungendo le altitudini in cui transita la Iss; tuttavia, non è questa la parte più severa della fascia. La radiazione di particelle proveniente dall’esterno della magnetosfera – di origine solare e galattica – è fortemente attenuate dalla magnetosfera. Questo non è però il caso delle prossime missioni Artemis, incluso il Lunar Gateway. Per quanto tempo una persona può rimanere in tali ambienti dipende molto dalla protezione offerta, dalla posizione in cui si trova e dal livello di rischio che è disposta a correre. In effetti, la sopravvivenza stessa è aperta a interpretazione e si cerca di mantenere l’aumento del rischio di morte nel corso della vita di un astronauta entro una probabilità molto bassa. Per questo ci sono limiti fissi per gli astronauti e il ruolo dei progettisti e degli operatori di missioni spaziali è di mantenere gli astronauti al di sotto dei limiti».
Ha parlato di schermatura da radiazione: come funziona?
«Se sai quando passerai attraverso le fasce, ad esempio, puoi assicurarti di rimanere in una parte della Stazione spaziale fortemente schermata. Per quanto riguarda i raggi cosmici galattici, hanno un’energia così elevata che in realtà la schermatura è del tutto inefficace, quindi sai già che accumulerai una certa dose entro un certo periodo di tempo: questo limita la durata delle missioni al di fuori della magnetosfera terrestre a circa 500 giorni, che sono all’incirca il tempo necessario per arrivare su Marte e tornare».
C’è un modo per aggirare questo limite di 500 giorni?
«Questo è un po’ fuori dal mio campo di specializzazione, ma il modo in cui le radiazioni influiscono sulla biologia umana è uno degli argomenti critici per l’esplorazione spaziale. C’è ancora molta incertezza, è un settore che necessita di più ricerca: altrimenti bisogna aggiungere margini di sicurezza che possono rendere impossibile una certa missione. Quindi, se si riesce a comprendere meglio e a ridurre quelle incertezze, allora forse saranno facilitate più missioni. È un’area di ricerca attiva in corso su cui mi aspetto che ci si concentrerà sempre di più ora che stiamo per andare di nuovo sulla Luna, in questo decennio, e poi, si spera, su Marte nel decennio successivo».
Parlando di materiali, invece, quali sono quelli più efficaci per schermare le radiazioni?
«Il contributo maggiore alla schermatura è semplicemente quello che già c’è lassù, ciò di cui sono fatte le strutture, che è in gran parte alluminio. Nel caso di missioni spaziali umane, ci sono anche tante altre attrezzature come le tute spaziali. Ma c’è un problema: quando le particelle pesanti ad alta energia colpiscono il materiale di schermatura, producono frammenti che possono essere più difficili da fermare rispetto alla particella iniziale. Questo significa che, in alcuni casi, una schermatura maggiore aumenta di fatto la dose di radiazioni: a una certa profondità di schermatura c’è una sorta di minimo, poi con una schermatura maggiore si inizia a vedere una dose maggiore a causa di queste particelle secondarie. Questo è più rilevante per i raggi cosmici galattici. Per mitigare questo rischio, cerchiamo materiali schermanti con un basso numero atomico perché in generale hanno un comportamento di frammentazione migliore. L’alluminio ad esempio non ha un comportamento di frammentazione molto buono: altri materiali sono migliori, come plastica, polietilene o acqua. L’acqua è ovviamente una buona soluzione per il volo spaziale umano perché c’è comunque bisogno di averne un po’. I materiali di schermatura più esotici come quelli a base di litio sono stati identificati come ancora migliori. Il problema con i materiali a base di litio è che sono chimicamente instabili, ma sono in corso lavori per studiare soluzioni fattibili. In generale, la strategia prevede sia materiali multifunzionali (acqua, cibo, rifiuti) che alloggi ottimizzati (per esempio, accumulando schermature tradizionali in plastica e materiali multifunzionali attorno a una parte molto riparata della navicella) e materiali innovativi come quelli a base di litio».
Come si affrontava questo problema all’epoca delle missioni Apollo?
«Per quanto riguarda le fasce di radiazione, gli astronauti sono rimasti all’interno durante il transito e le hanno attraversate molto velocemente. C’è stata una grande tempesta solare avvenuta nell’agosto 1972, fortunatamente nel periodo che intercorre tra le missioni Apollo 16 e Apollo 17, ma si ipotizza che ciò avrebbe potuto rappresentare un grave rischio soprattutto per le attività extraveicolari degli astronauti sulla superficie lunare. Per quanto ne so, all’epoca non c’era una strategia per mitigare questo rischio».
E qual è invece la strategia per le future missioni sulla Luna?
«Per ovvi motivi, gli astronauti in missione lunare voleranno molto rapidamente attraverso un ambiente di radiazione come le fasce di Van Allen, ma questo non è un modo molto efficiente per raggiungere la Luna, per esempio. Ci saranno molti sistemi, tra cui i sistemi di propulsione elettrica, per cui è necessario sollevare una massa maggiore e ci vorrà più tempo per arrivare a destinazione. Tra i primi elementi da lanciare per il Lunar Gateway ci sono il Power and Propulsion Element e l’Habitat and Logistics Outpost, che dovrebbero volare non prima di novembre 2024. L’Esa sta consegnando lo European Space Radiation Array e l’Internal Dosimeter Array, in collaborazione con l’agenzia giapponese Jaxa, che integrano il carico utile Hermes (Heliophysics Environmental and Radiation Measurement Experiment Suite) della Nasa. Questa strumentazione va ad aggiungersi alle osservazioni delle fasce di radiazione durante il transito, poiché ci vorrà più di un anno prima che questi elementi attraversino le fasce e arrivino all’orbita lunare; una volta in orbita, ci daranno la capacità di fare previsioni a breve termine dell’ambiente e dare avvertimenti agli astronauti. In futuro, speriamo di implementare una suite di strumenti per soddisfare pienamente le esigenze dell’esplorazione spaziale umana. Questo andrebbe a integrare altre missioni che osservano il Sole e la corona solare per fornire capacità di previsione del meteo spaziale. Sarà un periodo interessante per l’esplorazione, quel che resta di questo decennio, e soprattutto il prossimo decennio».
Lei ha accennato prima al rischio da radiazioni connesso alle tempeste solari, che sono piuttosto imprevedibili. Come può essere mitigato?
«Cerchiamo di ridurre al minimo l’effetto di queste particelle attraverso la progettazione della missione. Tuttavia, per le operazioni diventa sempre più importante monitorare le condizioni meteorologiche spaziali e sviluppare capacità per prevedere tempeste di radiazioni solari e dare avvisi agli astronauti. Se gli astronauti si ritirano in rifugi antitempesta (aree fortemente protette) all’interno del veicolo spaziale, il rischio legato alla tempesta di radiazioni solari è ampiamente mitigato. Potrebbero persino circondarsi di materiale extra per migliorare la schermatura. Ma se si trovano in un’attività extraveicolare quando si verificano queste tempeste, c’è il rischio di effetti che potrebbero mettere in pericolo loro e la missione, spingendo gli astronauti oltre i loro limiti di dose di radiazioni oppure dando luogo a effetti a breve termine che mettono in pericolo la loro sicurezza».
C’è un momento migliore in un ciclo solare per pianificare tali missioni?
«È interessante notare che il momento migliore per una missione di esplorazione umana di lunga durata è durante il massimo solare, quando i brillamenti solari e le espulsioni di massa coronale interplanetaria sono più frequenti e più pericolosi. Questo perché il livello di radiazione di fondo, proveniente dai raggi cosmici galattici, varia durante il ciclo solare ed è attenuato quando il Sole è più attivo».
Questo è un po’ controintuitivo…
«Sì, e il motivo è che non possiamo fermare i raggi cosmici galattici: hanno un’energia troppo alta e si soffrirà di quella dose in ogni caso. L’unico modo per ridurla è volare quando il Sole è più forte e dunque riesce a deviare una frazione maggiore di queste particelle. Ovviamente, se si vola durante un massimo solare, diventa ancora più importante poter prevedere le tempeste di radiazioni. Questo è molto interessante per chi di noi lavora nella meteorologia spaziale perché lo rende un campo ancora più importante da studiare, per via degli effetti sul volo spaziale umano. È una sfida importante perché alcune di queste tempeste si verificano molto rapidamente: bisogna cercare di prevedere non solo l’effetto dell’eruzione ma l’eruzione stessa sul Sole».
L’ambiente di radiazione si estende fino alla Luna? Come cambiano i rischi dalle missioni sulla Stazione spaziale internazionale alle future missioni del Lunar Gateway?
«Intorno alla Terra, c’è molta protezione: se uno sorvola i poli, è soggetto a particelle ad alta energia provenienti dall’esterno, ma la Stazione spaziale ha un’inclinazione di 51-52 gradi quindi in realtà non vola sui poli e quindi non vede quella radiazione, o almeno non ne vede tutta la forza. In orbita terrestre bassa, si cerca di evitare di essere impegnati in attività extraveicolari quando si attraversa la fascia di protoni di Van Allen, ma è un problema relativamente facile da affrontare. Inoltre, la Iss è una grande stazione spaziale con molto materiale, quindi gli astronauti sono abbastanza ben protetti. Una volta che si va oltre la magnetosfera interna, le fasce di radiazione scendono a un livello basso ma le popolazioni di particelle galattiche e solari non sono attenuate. Non c’è molto da fare per quanto riguarda le popolazioni galattiche durante le operazioni, è un flusso relativamente prevedibile che varia lentamente».
E se consideriamo invece uno scenario di viaggio verso Marte?
«In chiave di trascorrere più tempo nello spazio profondo, abbiamo bisogno di modellare in dettaglio l’ambiente di radiazione all’interno delle capsule per il volo umano e del Gateway. La durata di queste missioni nello spazio profondo sarà molto, molto più lunga di quelle a cui hanno partecipato gli astronauti finora, e ciò significa che il livello di dose totale di radiazioni può diventare piuttosto alto. Come ho accennato, si pensa che la popolazione di raggi cosmici galattici ponga un limite alla durata di una missione nello spazio profondo a circa 500 giorni, per mantenersi al di sotto dei limiti di radiazione quando si considerano le incertezze degli effetti radiobiologici. Ciò significa che sono necessarie ulteriori ricerche su questi effetti per soddisfare chi pianifica una missione che il rischio per gli astronauti è accettabile. La principale differenza tra la Luna e Marte, secondo me, è che le missioni su Marte dovranno essere molto più lunghe perché bisogna aspettare che ritorno l’allineamento dei pianeti, quindi si arriva automaticamente a un periodo di 500 giorni. Le missioni lunari possono essere molto più brevi e se qualcuno subisce un’esposizione alle radiazioni, potrebbe tornare prima. Inoltre, le infrastrutture che abbiamo intorno alla Terra per prevedere le tempeste solari e misurare la radiazione, possono essere utilizzate anche per la Luna, ma per Marte avremo bisogno di un diverso insieme di infrastrutture. È interessante notare che le eruzioni sul Sole che potrebbero avere un impatto più acuto su Marte possono venire da una parte del Sole che non si può nemmeno vedere da Marte, oltre il cosiddetto lembo occidentale, mentre nella Terra è a circa 60 gradi dal lato destro del Sole che esistono le migliori condizioni di trasporto della radiazione».
Ci sono dispositivi medici che gli astronauti potrebbero utilizzare in caso di esposizione eccessiva alle radiazioni e conseguenti malattie durante una missione di lunga durata, per esempio su Marte?
«Una specie di iniezione à la Star Trek che ti aiuta con le radiazioni? Per quanto ne so, non esiste niente di simile. Penso che la cosa più importante in quel caso sarebbe aiutare gli astronauti a tornare dentro la navicella e uscire dalla tuta spaziale, perché se stai fisicamente male a causa delle radiazioni, la cosa peggiore sarebbe trovarsi all’interno di una tuta confinata. Probabilmente ci saranno molti altri problemi, ma sicuramente vomitare all’interno di un ambiente in microgravità non è auspicabile. Penso che aiutarli semplicemente a rientrare sarebbe l’assistenza principale che gli altri potrebbero dare, e per questo sarebbe vantaggioso avere un equipaggio numeroso, anziché solo una o due persone a bordo».
Anche Marte e gli altri pianeti hanno qualcosa di simile alle fasce di Van Allen?
«Giove ha un campo magnetico molto forte e un ambiente con radiazioni intrappolate. Si dice che se potessimo vedere la magnetosfera gioviana, dalla Terra, sembrerebbe grande quanto la Luna. È un ambiente molto impegnativo per le missioni spaziali come Juice [missione dell’Esa senza equipaggio che sarà lanciata alla volta di Giove e delle sue lune nel 2023, ndr] che ha un caveau di piombo dedicato che ospita alcune componenti per offrire protezione aggiuntiva. Anche altri giganti gassosi hanno fasce di radiazioni, mentre pianeti come Marte e Mercurio hanno campi magnetici molto deboli in cui si verifica solo un intrappolamento transitorio di particelle: normalmente sono a bassissima energia e non destano grande preoccupazione».
Le radiazioni sono un problema anche per le missioni spaziali senza equipaggio. Parliamo dunque dell’elettronica: quali sono i rischi derivanti dalle radiazioni che colpiscono i componenti dei veicoli spaziali?
«Esistono quattro diversi tipi di effetti delle radiazioni sui componenti dei veicoli spaziali: effetti legati alla dose ionizzante, il che significa che la radiazione particellare deposita energia nell’area sensibile e può nel tempo cambiare le sue proprietà; effetti legati alla dose non ionizzante, che sono normalmente spostamenti della struttura reticolare e possono anche modificare le proprietà dell’oggetto; effetti a evento singolo, che avvengono su più breve termine e vanno da un falso segnale o una semplice perturbazione della memoria a qualcosa di più critico, che può portare a un ciclo di feedback distruttivo; e infine la carica interna, che è causata da elettroni ad alta energia, in cui una quantità di carica si deposita in una componente in profondità, all’interno di un veicolo spaziale, ed è così ben isolata che si accumula e genera una scarica».
Come vengono mitigati questi effetti?
«Molto viene fatto attraverso la progettazione delle componenti. Questo può voler dire che le componenti spaziali possono essere un po’ più pesanti o consumare più energia. Vengono poi condotti moltissimi test: questa è la cosa più importante quando si sviluppano componenti che andranno nello spazio, non si testa solo un processore ma si testano tutti i processori. Questo, ovviamente, viene combinato con l’analisi ambientale. Non perdiamo molto spesso missioni a causa delle radiazioni e sarebbe un male se ciò accadesse».
Guarda il video sullo European Space Radiation Array dell’Esa:
Intervista disponibile anche in lingua inglese sul blog dell’Esa dedicato alla navicella Orion della missione Artemis I.